"VIAGGIATORE, NON C'E' UN SENTIERO.
I SENTIERI SI FANNO CAMMINANDO".

Antonio Machado, Poesias Completas

giovedì 9 settembre 2010

FINE. ITINERARIO. INDICE. RINGRAZIAMENTI.

FINE
Il 7 settembre 2010 Edo è tornato a Torino.
Dopo aver guardato per un po’ il giardino di casa dalla finestra, ha cominciato a svuotare lo zaino.
Vi abbraccio.

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ITINERARIO
Edo ha camminato da queste parti:

ITALIA
10/4 San Benigno Canavese - Malpensa - Bangkok

MYANMAR (BIRMANIA)
11/4 Bangkok - Yangon
12/4 Yangon
13/4 Yangon - Bago - Kyaikhtiyo
14/4 Kyaikhtiyo - Taunggyi
15/4 Taunggyi - Kalaw
16/4 Kalaw - Shan Mountains
17/4 Shan Mountains - Inle Lake
18/4 Inle Lake
19/4 Inle Lake
20/4 Inle Lake - Pindaya - Kalaw
21/4 Kalaw - Mandalay
22/4 Mandalay - Inwa - Amarapura - Sagaing
23/4 Mandalay - Mingun
24/4 Mandalay - Bagan
25/4 Bagan
26/4 Bagan
27/4 Bagan
28/4 Bagan - Pope
29/4 Bagan - Taunggyi
30/4 Taunggyi - Yangon
31/4 Yangon - Ngwe Saung
1/5 Ngwe Saung
2/5 Ngwe Saung
3/5 Ngwe Saung - Yangon
4/5 Yangon

THAILANDIA
5/5 Yangon - Bangkok
6/5 Bangkok
7/5 Bangkok
8/5 Bangkok
9/5 Bangkok - Trang
10/5 Trang - Krabi
11/5 Krabi - Ko Phi Phi
12/5 Ko Phi Phi
13/5 Ko Phi Phi - Krabi - Railay
14/5 Railay
15/5 Railay - Ao Nang - Bangkok
16/5 Bangkok - Chonburi
17/5 Chonburi - Ko Si Chang
18/5 Chonburi - Bangkok - Buriram
19/5 Buriram - Phanom Rung
20/5 Buriram - Lomsak
21/5 Lomsak
22/5 Lomsak - Phasorn Kaew
23/5 Lomsak
24/5 Lomsak - Sukhothai
25/5 Sukhothai
26/5 Sukhothai - Nakhon Ratchasima
27/5 Nakhon Ratchasima - Pak Chong - Khao Yai
28/5 Khao Yai
29/5 Khao Yai - Pak Chong - Bangkok
30/5 Bangkok - Jomtien
31/5 Jomtien
1/6 Jomtien
2/6 Jomtien - Ubon Ratchathani

LAOS
3/6 Ubon Ratchathani - Pakse
4/6 Pakse - Champusak
5/6 Pakse - Paksong - Tat Fan
6/6 Paksong - Tat Fan - Tat Yuang
7/6 Paksong - Sekong - Nam Tok Katamtok
8/6 Paksong - Pakse
9/6 Paksong - Don Khong
10/6 Don Khong - Don Det - Don Khon
11/6 Don Khong
12/6 Don Khong - Paksong - Tha Khaek
13/6 Tha Khaek - Ban Khun Kham
14/6 Ban Khun Kham - Tham Kong Lo
15/6 Ban Khun Kham - Vientiane
16/6 Vientiane
17/6 Vientiane - Vang Vieng
18/6 Vang Vieng
19/6 Vang Vieng
20/6 Vang Vieng - Luang Prabang
21/6 Luang Prabang
22/6 Luang Prabang
23/6 Luang Prabang
24/6 Luang Prabang
25/6 Luang Prabang
26/6 Luang Prabang
27/6 Luang Prabang - Tat Kuang Si
28/6 Luang Prabang
29/6 Luang Prabang - Pak Mong
30/6 Pak Mong - Huay Xay
1/7 Huay Xay - Bokeo
2/7 Bokeo
3/7 Bokeo - Luang Nam Tha
4/7 Luang Nam Tha - Nong Khiaw
5/7 Nong Khiaw
6/7 Nong Khiaw - Sam Neua
7/7 Sam Neua - Vieng Xai
8/7 Vieng Xai

VIETNAM
9/7 Vieng Xai - Thanh Hoa
10/7 Thanh Hoa - Hanoi
11/7 Hanoi
12/7 Hanoi - Halong Bay
13/7 Halong Bay
14/7 Halong Bay - Hanoi
15/7 Hanoi
16/7 Hanoi - Sapa
17/7 Sapa
18/7 Sapa
19/7 Sapa - Hanoi
20/7 Hanoi
21/7 Hanoi - Hue'
22/7 Hue'
23/7 Hue'
24/7 Hue' - Thien Mu - Imperial Tombs
25/7 Hue' - Hoi An
26/7 Hoi An
27/7 Hoi An
28/7 Hoi An - My Son
29/7 Hoi An - Quy Nhon
30/7 Quy Nhon - Saigon
31/7 Saigon
1/8 Saigon - Mytho
2/8 Mytho
3/8 Mytho - Can Tho
4/8 Can Tho - Rach Gia
5/8 Rach Gia - Phu Quoc
6/8 Phu Quoc
7/8 Phu Quoc - Mytho
8/8 Mytho - Saigon

MALESIA
9/8 Saigon - Kuala Lumpur (volo)
10/8 Kuala Lumpur
11/8 Kuala Lumpur
12/8 Kuala Lumpur
13/8 Kuala Lumpur - Melaka
14/8 Melaka
15/8 Melaka
16/8 Melaka
17/8 Melaka - Pulau Tioman
18/8 Pulau Tioman
19/8 Pulau Tioman
20/8 Pulau Tioman - Kuala Lumpur
21/8 Kuala Lumpur - Cameron Highlands
22/8 Cameron Highlands
23/8 Cameron Highlands - Penang
24/8 Penang
25/8 Penang
26/8 Penang - Pulau Perhentian
27/8 Pulau Perhentian
28/8 Pulau Perhentian - Kota Bharu
29/8 Kota Bharu - Jerantut - Taman Negara
30/8 Taman Negara
31/8 Taman Negara - Kuala Lumpur
1/9 Kuala Lumpur
2/9 Kuala Lumpur
3/9 Kuala Lumpur

THAILANDIA
4/9 Kuala Lumpur - Bangkok (volo)
5/9 Bangkok
6/9 Bangkok

ITALIA
7/9 Bangkok - Malpensa - San Benigno Canavese

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INDICE
Post pubblicati:
1. YANGON CALLING
2. CENSURA E TECNICHE DI AGGIRAMENTO
3. RISCHI DEL VIAGGIARE: THINGUN!
4. ATTENTI A QUEI DUE: THE FOOD THAT SHOULDN'T EAT TOGETHER
5. ON LINE
6. DOVE LA NOTTE E' NOTTE
7. "ALCUNI PICCOLI CURIOSI FATTI SPARSI". EPISODIO UNO: Babele, non ti temo!
8. CURVA SUD (EST ASIATICO)
9. EDO TRA I BAFFI
10. "ALCUNI PICCOLI CURIOSI FATTI SPARSI". EPISODIO DUE: Quello che non c'è
11. FRATELLO, DOVE SEI?
12. L'AMORE AI TEMPI DEL TELEFONINO
13. WHERE ARE YOU GOING?
14. VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE PRIMA
15. “ALCUNI PICCOLI CURIOSI FATTI SPARSI”. EPISODIO TRE: Torna ad Hoi An
16. VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE SECONDA
17. VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE TERZA.
18. LETTERA AI MIEI AMICI E CONOSCENTI PER QUANDO FARO' RITORNO
19. PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE PRIMA
20. PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE SECONDA
21. PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE: Ops, una dimenticanza!
22. PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE TERZA
23. GUERRE INVISIBILI
24. E NEL SOGNO STRINGO I PUGNI, TENGO FERMO IL RESPIRO E STO AD ASCOLTARE
25. FINE. ITINERARIO. INDICE. RINGRAZIAMENTI

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RINGRAZIAMENTI.

Un ringraziamento unico, speciale, irripetibile ad Isabella e Giorgio.
Grandi Persone, grandi Viaggiatori.
Per avermi trasmesso l’amore per il Viaggio. Per aver capito.

Un ringraziamento particolare a Kelly: per il prezioso aiuto con il lavoro in studio; per “In Asia” di Tiziano Terzani; per gli utili consigli sul Myanmar.

Un grande ringraziamento a:
Alessandro, Anne-Catherine, Bruno, Carlo, Clemence, Ewa, Gianni, Ivy, Kanjana, Marco, Michela, Mr Coffee, Nhung, Nongnuch, Nuria, Peak, Peng, Ralph, Riccardo, Saeideh e famiglia, Serena, Sirida, Tarynn, Tien e famiglia, Tzu, Flo, Vy, Wayne, Yanisa.

Infine, grazie a tutti i “viaggiatori viaggianti” con cui ho condiviso giornate, serate, escursioni tra le montagne, partite a carte, birre, percorsi, tragitti, informazioni, consigli, parole, risate, sogni.

E NEL SOGNO STRINGO I PUGNI, TENGO FERMO IL RESPIRO E STO AD ASCOLTARE

Tutto quello che possediamo è destinato a consumarsi, alterarsi, sbiadire, invecchiare, scomparire.
I vestiti che indossiamo, l’auto che guidiamo.
Tutto ciò che abbiamo può andare perduto, può esserci sottratto, può cadere, fuggire.
Potrebbero cancellare, annullare, seppellire, tutto quello che abbiamo.
Ma i ricordi.
I ricordi dei viaggi, delle terre che abbiamo attraversato, dei colori, degli odori.
Quelli non scompariranno, mai.
Non andranno perduti. Nessuno potrà sottrarceli, annullarli, cancellarli.
Potranno imprigionarci, incatenarci, denudarci, ma nessuno potrà strapparceli, i ricordi.
La notte, al buio, poco prima di dormire, potremo tornare a percorrere i vicoli stretti ed odorosi di Bombay. Saremo di nuovo in cima al tempio di Buledi, a farci togliere il fiato dal tramonto che brucia la valle di Bagan. Attraverseremo ancora le acque calme del Mekong per raggiungere il palazzo reale di Luang Prabang. Taglieremo ancora la calda notte di Saigon in sella a un motorino, cammineremo di nuovo lungo le mura di Angkor, torneremo ad esplorare le grotte di Ellora.
Rivedremo ancora tutti quei volti, quei sorrisi.
Torneremo ancora a cercare un sentiero, quel sentiero, che, lo sappiamo, in fondo non c’è.
Perché siamo viaggiatori ed i sentieri si fanno camminando.


P.S.: il mio amato I-pod, in selezione “casuale”, mi ha riproposto una canzone che non ascoltavo da tempo e le cui strofe iniziali mi son parse un “accompagnamento” sonoro molto bello ed indicato per il post che avete appena letto. La canzone è “I treni a vapore”, di Ivano Fossati, e vi invito ad ascoltarla nella, emozionante, versione “live” contenuta in “Dal vivo - Volume I – Buontempo”:

Io la sera mi addormento
E qualche volta sogno
Perché voglio sognare
E nel sogno stringo i pugni
Tengo fermo il respiro
E sto ad ascoltare
Qualche volta sono gli alberi d’Africa a chiamare
Altre notti sono vele piegate a navigare
Sono uomini e donne e piroscafi e bandiere
Viaggiatori viaggianti da salvare…

mercoledì 8 settembre 2010

GUERRE INVISIBILI

Dopo quattro mesi sono nuovamente a Bangkok. La prima volta che ci arrivai, agli inizi di maggio, la città era insanguinata dagli scontri tra i dimostranti delle Red Shirts e l’esercito. Ogni sera il notiziario recitava un doloroso bollettino di morti e feriti (negli scontri rimase ucciso anche un reporter italiano, forse ricorderete). La situazione aveva davvero un che di onirico e paradossale: dato che gli scontri erano limitati ai quartieri della metropoli occupati dai dimostranti (in particolare, Siam Square e Silom), poteva capitarvi di girare serenamente per le altre zone della città senza accorgervi di nulla. La televisione trasmetteva immagini di barricate, incendi, violenze e la vita, solo poche vie più in là, proseguiva in apparente, ovattata, normalità. Centri commerciali frequentati come al solito. Starbucks e Mc Donald affollati come al solito. Ogni tanto saliva una colonna di fumo dalle zone occupate. I passanti la osservavano per un momento e poi proseguivano a parlare, camminare, pensare ad un buon film da affittare per la serata. Poteva capitarvi di domandare ad un tassista se ci fosse modo di raggiungere una qualche zona della metropoli e sentirvi rispondere “Si’, certo. Però ti costerà qualche bath in più, devo fare un giro ‘largo’ per arrivarci, sai, in Rama Road stanno combattendo”. Lo diceva con lo stesso tono con cui avrebbe potuto dire “sai, stanno rifacendo il manto stradale”. Poi vennero i giorni del coprifuoco. Non mi trovavo più a Bangkok, ero a nord, tra le montagne che circondano Lomsak. Un altro mondo. A Bangkok ci ripassai proprio l’ultima sera di coprifuoco. La rivolta era stata sedata e che ancora il coprifuoco non fosse stato revocato pareva a molti una formalità burocratica più che un’effettiva necessità. Era un sabato sera, le strade erano gremite di giovani. Alcuni dicevano: “Coprifuoco? Non c’è più, l’hanno tolto, ieri, anzi, un paio di giorni fa, non ricordo bene”. Ad altri che sostenevano: “C’e’ ancora, è l’ultimo giorno, c’è ancora, a partire dalla mezzanotte”, c’era chi rispondeva “L’hanno abbreviato, non sai, inizia all’una di notte o forse alle due”. Tutti ne parlavano come di un qualcosa lontano, opaco, straniero.


P.S.: scritto a Siam Square, Bangkok, il 6 settembre 2010. .

martedì 7 settembre 2010

PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE TERZA.

(SEGUE)
"Come non parlano laotiano? Non siamo in Laos scusa?".
"Si'. Ma questi parlano solo il loro dialetto" mi risponde il cognato di Mr Coffee.
"E tu? Tu non parli il dialetto".
"Si', il mio. Ma questo e' differente".
"E non capiscono?".
"No. Sanno solo qualche parola di laotiano, non mi capiscono".
Interviene lo svizzero "Dove ci troviamo in questo momento?".
Cognato di Mr Coffee: "In che senso?".
"Dove siamo, come si chiama questo posto?".
"Questo posto non ha un nome. Siamo nella foresta, a parecchi kilometri da Sekong, a precchi kilometri da Attapeu. Punto".
Restiamo tutti in silenzio per un po'. E' curioso: messi insieme, saremmo in grado di parlare o quanto meno di comunicare in una dozzina di lingue. Ma qui non serve. Siamo come muti, in un luogo senza nome (anche i telefoni cellulari non "prendono"; il che per l'uomo contemporaneo sancisce il definitivo distacco dalla societa' civile).
Il silenzio vien rotto da Mr Coffee: "Dobbiamo muoverci e c'e' solo una soluzione: torniamo al villaggio nei pressi di Nam Tok Katamtok; li' sono certo che una sistemazione la troviamo. Ve ne state al villaggio due o tre giorni e quando mi sono procurato l'autorizzazione faccio in modo di farvi portare alla base dei coreani. Andiamo".
Ci dirigiamo tutti verso l'auto, ad eccezione del ceco, che e' rimasto fermo, ad osservare la foresta. Coffee lo chiama: "Ehi, andiamo al villaggio, va bene? Andiamo, partiamo".
Il ceco si volta come ridestato da un qualche sonno. Risponde, assorto: "Certo, il villaggio, va bene il villaggio, ci andiamo. Ma fatemi stare qui ancora un minuto. Fatemi sedere su questa roccia, solo un minuto ancora, qui. Nel mezzo del nulla, lontano da tutto". Siede e si accende una sigaretta, continuando a guardare i grandi alberi verdi. Subito mi vien da pensare: "Ha detto una cosa molto bella. Non so come sia finito a studiar blatte, ma quest'uomo vale qualcosa".
Nessuno solleva obiezioni, ci sediamo anche noi, ciascuno osserva il proprio pezzo di foresta. Terminato di fumare, il ceco si alza e dice: "Bene, andiamo".
Coffee ora guida piu' velocemente, si capisce che ci tiene a raggiungere Sekong prima che cali il buio. Giunti al villaggio, il cognato di Mr Coffee chiede di parlare con il "sindaco". Trovano un accordo per consentire ai ricercatori di occupare una delle capanne per qualche giorno. Terminata la conversazione, come d'uso, si festeggia l'arrivo di "ospiti" nel villaggio, bevendo del vino di riso, bianco e spesso. Il sapore mi riporta alla mente il vino di riso che che bevetti tra le montagne dello Shan, in Myanmar, quando camminai due giorni tra Kalaw ed il lago Inle. Anche il cognato di Mr Coffee si fermera' al villaggio per questi primi giorni; occorre un interprete e qui parlano laotiano.
Coffee ed io ripartiamo che il sole sta scivolando dietro il tetto della foresta. Quando cade il buio, stiamo ancora percorrendo lo sterrato. In prossimita' del bivio per Sekong incontriamo altri piccoli villaggi. Non c'e' corrente elettrica, solo qualche fuoco acceso. Anche qui, isole nel mare della notte. Ci fermiamo a Sekong per mangiare qualcosa, riso e verdura, e bere un paio di Beerlao. Coffee mi racconta pezzi di vita, viaggi, luoghi; mi racconta dell'Asia, che se l'e' preso.
Raggiungiamo Paksong che e' quasi mezzanotte e devo bussare a lungo perche' l'albergatore si svegli e mi venga ad aprire. Mi rivolge uno sguardo di rimprovero che significa "Ti par questa l'ora di arrivare?". Mi limito a dire "Ero con Coffee" e mi dirigo veloce verso la mia stanza.
La mattina successiva riparto. C'e' un bus per Pakse, mi dicono, ma non si sa bene a che ora passi. Ci si siede e si aspetta. Passera', si fermera', raggiungero' Pakse. Ma prima di andarmene, voglio bermi un ultimo caffe'. Mr Coffee mette la moka sul fuoco e mi domanda "Prossima meta?".
"Vado a Si Phan Don".
"Bello, giusto, vacci".
Terminato il caffe', prendo il portafoglio e tiro fuori una manciata di Kip, per pagare.
"Non ho il resto da darti. Me lo paghi la prossima volta".
"Coffee, sinceramente, non credo che mi capitera' a breve di di ripassare a Paksong".
"E chi lo sa? Magari ci ripassi. Il caffe' e' buono, no?".
"Gia', chi lo sa. Grazie".
Il bus scende veloce, verso Pakse, e mentre guardo dal finestrino il Bolaven passare, mi domando se a Si Phan Don trovero' caffe' altrettanto buono.

P.S.: PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE e' stato scritto a Kuala Lumpur, Malesia.

PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE: Ops, una dimenticanza!

Stavo dando una veloce rilettura a PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE
SECONDA, giusto prima di pubblicare il capitolo conclusivo della saga, e mi
sono accorto di aver inavvertitamente (ahime') "saltato" un paio di frasi. Mi
e' ben chiaro che non ci troviamo di fronte a capolavori della letteratura
contemporanea, ma l'omissione mi e' comunque dispiaciuta, piu' che altro
perche' ne risulta in parte compromesso l'importante ruolo svolto dall'amico
Coffee in tutta la vicenda. Dunque, porgendovi le mie scuse per l'accaduto, ho
infine deciso di riportare qui di seguito la piccola parte mancante, che deve
intendersi inserita subito dopo il terz'ultimo capoverso (ovvero tra le parole
"...due o tre giorni per procurarsela" e "Dunque, salutiamo..."):

"Questo e' il piano: per lo svizzero ed il ceco tornarsene sino a Pakse e
curare gli aspetti burocratici della vicenda costituirebbe un imperdonabile
spreco di tempo; ora che nella loro amata foresta ci sono arrivati, ci vogliono
ben restare. L'ideale sarebbe, dunque, trovare un posto nei dintorni della
base, dove trattenersi per due o tre giorni, in attesa che una persona di
fiducia si occupi di ottenere l'autorizzazione e di farla aver loro. In sintesi: altro lavoro per Mr Coffee (confido il buon Coffee si faccia generosamente remunerare per tutte queste attivita'; non mi pare persona adatta a gran sforzi e comincio ad essere sinceramente preoccupato per la sua salute!).

domenica 5 settembre 2010

PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE SECONDA.

(SEGUE)
Dunque, la mattina seguente sono li', puntuale, davanti al bar di Mr Coffee.
Dopo qualche minuto arrivano anche i due ricercatori, trascinando delle
grandi borse cariche di bottiglie d'acqua, pane ed altri viveri. Facciamo quattro
chiacchiere in attesa di Mr Coffee. Son brave persone, nulla da eccepire, ma
non posso negarvi che mantengo qualche riserva quanto a socializzazione con
gente che si diletta a studiar scarafaggi.
Comunque, e' gia' un po' che ce ne stiamo li' a parlare e l'amico Coffee non
si vede. Quando e' trascorso un buon lasso di tempo, la moglie, che ho
conosciuto la sera precedente, compare da una finestra e ci rivolge un
cenno come a dire "sta arrivando". Passa altro tempo. Intorno alle sette e
tre quarti, Mr Coffee finalmente si manifesta. Fa dei gran sbadigli, si
stiracchia e ci guarda con l'espressione di chi sta pensando "Son gia' qui? Era per
oggi? In che paese mi trovo?" o qualcosa del genere. Quindi, esordisce con un pezzo
forte del suo repertorio: "Facciamoci un caffe'".
Insomma, tra attesa, chiacchiere e lenta degustazione del caffe' - al quale
Mr Coffee accompagna le prime tre o quattro sigarette della mattinata - ci troviamo a partire con un paio d'ore di ritardo rispetto a quel che si era stabilito (verrebbe da pensare "chi ben comincia..."). Prendiamo dunque posto sullo
sgangheratissimo (come avrebbe potuto essere altrimenti) fuoristrada di Mr
Coffee. Composizione del team:
- in cabina di pilotaggio, al posto di guida, Mr Coffee: jeans sdruciti, maglietta dei Ramones, occhialoni da sole modello "Paura e delirio a Las Vegas" ed immancabile sigaretta in bocca;
- in mezzo (accanto al guidatore ci sono altri due posti a sedere), scienziato
svizzero: cappellino con scritta "I love Vietnam", camicia a quadretti colorati, pantaloncini verde militare da esploratore, sorriso ebete;
- sulla destra, Edo: lo conoscete, non mi soffermo sui particolari;
- nel retro (il fuoristrada ha solo tre posti, la parte posteriore e' un cassone aperto), tra zaini, borse e sacchi, scienziato ceco (per chi non avesse letto con attenzione il post precedente, ribadisco che ci vede benissimo): ampio camicione
verde multitasche, pantaloni Northsails palesemente taroccati, acne diffusa malgrado il superamento della fase adolescenziale risalga a parecchi anni addietro;
- sempre nel retro, cognato di Mr Coffee, un ragazzo laotiano che fungera' da
interprete con gli abitanti dei villaggi e che, cosa piuttosto rara da queste parti, parla anche un eccellente inglese: in definitiva, l'unico normale del gruppo.
La strada sino a Sekong, che in effetti e' in buone condizioni, fiancheggia lunghi tratti di foresta ed attraversa qualche raro, minuscolo, centro abitato. I bambini ci guardano passare. Dopo circa un'ora di viaggio ci fermiamo a comprare altra acqua ed a goderci un po' il panorama. Ne approfitto per domandare a Mr Coffee:
"Mr, senti, e' vero che e' cosi' complicato trovarla Nam Tok Katamtok; intendo, che
non e' segnalata ed occorre indovinare il sentiero giusto?".
"Ah, non saprei...".
"Come 'non saprei'... scusa Coffee, ma tu quante volte ci sei stato?".
"Io? Mai".
"Andiamo bene, ma tu non saresti la guida scusa?"
"Si', ma tranquillo, la troviamo, mio cognato ci sa arrivare (mi ha detto); magari giriamo un po' ma la troviamo".
"Se lo dici te. Permettimi un'ultima domanda... ma tu da quanto vivi a Paksong?".
"Due anni e mezzo".
"Due anni e mezzo? E non t'e' mai venuta la curiosita' di fare un salto a vederla la cascata?".
"Si', ma sai... E' che sono un tipo un po' pigro".
Qualche kilometro dopo Sekong raggiungiamo finalmente il bivio. La strada asfaltata prosegue dritta, verso Attapeu; lo sterrato sulla destra buca il muro della foresta. Il cognato di Mr Coffee fa un cenno con la testa: e' quella la via per Nam Tok Katamtok. Cosi', iniziamo a percorrere lo sterrato, tra gran sobbalzi e imprecazioni. Come per ogni "caccia al tesoro" che si rispetti, abbiamo anche noi le nostre tracce da seguire: occorre superare tre ponti; poco dopo il terzo ponte la strada dovrebbe cominciare a farsi ripida, dato che bisogna oltrepassare una collina prima di giungere al fantomatico sentiero; infine, il sentiero, angusto ed avvolto dalla boscaglia, dovrebbe intravvedersi sul lato sinistra della carreggiata. Procediamo ed ogni volta che ci imbattiamo in uno degli indizi, tutti insieme, come a confortarci l'un l'altro, esclamiamo a gran voce "ci siamo, giusto, avanti!". Eccolo: "first bridge, you see". Ci sono anche il secondo ed il terzo ponte. E la collina, il fuoristrada comincia a salire. Nel ridiscendere a valle abbiamo tutti lo
sguardo volto alla nostra sinistra (anche Mr Coffee, che sta guidando; il che
francamente mi suscita qualche apprensione), nel tentativo di individuare il
famigerato sentiero. Siam tutti cosi' seri e concentrati, silenziosi, come non
volessimo che un qualche nemico avvertisse la nostra presenza. Solo lo svizzero ogni tanto sibila "dovremmo esserci quasi, dovremmo esserci". Ci allontaniamo dalla collina e gia' comincia a serpeggiare il malumore in seno alla truppa, quando il giovane laotiano si mette a battere sul vetro ed indicare, appunto, alla propria sinistra. Il sentiero. Un sentiero, in effetti, c'e'. Che questo sentiero sia IL sentiero, vai poi a saperlo. Quel che e' certo e' che la cascata, da qui, non si vede. Coffee ha fermato il fuoristrada e dice "proviamo". Gira la chiave e spegne il rumorosissimo, affaticato, motore. E nel momento in cui il motore cessa finalmente di urlare, la udiamo. La voce, la voce di Nam Tok Katamtok. Possente, penetra nella foresta, attraversa il muro fitto della vegetazione, riempe l'aria, giunge sino alla strada, ci chiama. "Ci siamo".
Percorriamo a piedi il sentiero (per fortuna non c'e' stata pioggia e le sanguisughe dovrebbero starsene buone), seguendo la voce, che si fa sempre piu'
netta e viva. Il sentiero buio termina in una luminosa radura. E la radura e' come una grande terrazza, oltre la quale la terra precipita in una valle stretta e profonda. E sull'altro versante della valle, proprio di fronte a noi, Nam Tok Katamtok. Maestosa. L'acqua, se ne segui il percorso con gli occhi, sembra cadere cosi' lentamente, per poi spaccarsi contro le rocce. E poi altra acqua, ce ne stiamo li' a fare questo giochino visivo per un po'. Scattiamo un sacco di foto che non serviranno a niente, perche' ci son cose difficili da catturare, bisogna esserci. Ci mangiamo qualche manciata di rambutan, prima di rimetterci sulla via.
Completata la "fase uno" della missione, ora, come convenuto, si tratta di trovare alloggio per gli studia-blatte. A qualche kilometro dal sentiero per Nam Tok Katamtok, c'e' un primo villaggio; ma i due vogliono addentrarsi ancor piu' nei territori "selvaggi" a nord di Attappeu. Lo svizzero guarda in continuazione il proprio apparecchietto GPS, consulta un'agendina e dice "se potessimo andare ancora un po' ad est...". Dopo il villaggio e' piu' facile incontrare, di tanto in tanto, qualche passante, dato che ci sono delle coltivazioni nei paraggi. Ogni volta, Coffee ferma l'auto ed il cognato domanda se ci siano nei dintorni altri piccoli villaggi o anche solo qualcuno che possa avere una capanna per i due. Proseguiamo, verso est, lo svizzero ed il ceco confabulano tra loro. Ad un bivio, ci fermiamo nuovamente. Il cognato di Mr Coffee (povero ragazzo, un po' mi spiace ridurlo sempre e solo al ruolo di "cognato di Mr Coffee", ma davvero non ricordo come accidenti si chiamasse) parla con un contadino. Poi ci riferisce: "possiamo andare ancora un poco a est ma c'e' solo piu' la ex base dei coreani, la strada finisce li'". Lo svizzero
interviene giulivo: "andiamoci, potrebbe essere un buon posto per sistemarci".
Un "buon posto"? Ragazzi, e' proprio vero che tutto e' relativo; quando ci arriviamo, alla base dei coreani, a me pare semplicemente il posto piu' infelice della terra. Quella che definiscono "base", in realta' e' un ex cantiere per estrazioni minerarie (o almeno questo e' cio' che si dice) di proprieta' di una grande impresa sud coreana. Il cantiere e l'area dove vennero costruiti e tuttora si trovano i fabbricati per l'alloggiamento degli operai ed il ricovero delle attrezzature sono immensi. Malgrado il cantiere sia chiuso da molto tempo la zona e' recintata e sorvegliata da "guardiani" che vivono all'interno del campo. Tutto e’ in uno stato di desolante, inquietante, abbandono. I guardiani oziano su delle amache appese di fronte all’arruginito cancello d’ingresso. Rivolgo un’occhiata interrogativa allo svizzero ed al ceco e non riesco a trattenermi dal domandare “Davvero vorreste star qui?”. Lo svizzero mi risponde entusiasta “Oh si’, e’ grandioso!” e mi mostra il taccuino che non ha smesso di consultare da quando abbiamo oltrepassato il villaggio. Mi spiega che sull’agenda sono riportati gli appunti di un noto ricercatore (per quanto possa essere noto uno studia-blatte, s’intende) il quale, una decina d’anni orsono, si reco’ in queste stesse zone ed annoto’ gli estremi longitudolatitudinali dell’area in cui si trovano le rare specie che i nostri favoleggiano di studiare. Ebbene, GPS alla mano, gli estremi corrispondono esattamente al punto in cui ci troviamo ora, la “base dei coreani”. Adesso che lo so, un poco avverto l’emozione anch’io (n.d.r: sto scherzando eh).
Il cognate di Mr Coffee deve ripetere almeno quattro volte ai guardiani che stiamo cercando alloggio e che la base sarebbe perfetta. Non e’ che non capiscano; semplicemente, non riescono a capacitarsene. Uno dei guardiani mi fissa con l’espressione di chi vorrebbe domandare “perche’ lo fai?”. Inarco le
sopracciglia ed indico con rapidi movimenti del capo alla mia sinistra, in
drirezione dei due scienziati (che se la stanno ridendo tutti contenti), nel
tentativo di far capire che io non c’entro, se c’e’ qualcuno da fissare sono
quei due spostati, io stanotte me ne tornero’ a dormire nel mio confortevole
albergo da cinque dollari, a Paksong.
I guardiani, una volta compreso l’effettivo oggetto della richiesta (si’, e’
proprio cosi’, i due falang pazzi chiedono il permesso di “alloggiare” nella
base per un paio di settimane), si mettono a parlar fitto tra loro. Il caso, in
effetti, richiede un consulto, non accade tutti i giorni di incontrare “turisti" da queste parti; tanto meno turisti che vogliano starsene nella base.
Al termine del confronto, la risposta dei guardiani e’ un distillate di pura,
italica, saggezza: per quanto riguarda loro non ci sono problemi ad aver “ospiti”; ma si tratta di decisioni che solo l’ufficio responsabile puo’ assumere. In conclusione, per entrare nella base i due dovranno dimostrare di aver ottenuto un’autorizzazione da parte dell’ufficio, che ha sede a Pakse. Il parere dei guardiani e’ che l’autorizzazione verra’ data (d’altronde, perche’ non assecondare i propositi di questi simpatici folli) ma ci vorranno due o tre giorni per procurarsela.
Dunque, salutiamo i pur sempre esterefatti guardiani e ci rimettiamo in marcia. Occorre trovare un posto per i due ed a questo punto si tratta di trovarlo rapidamente perche’ non manca molto al tramonto (e l’eventualita’ di vagare per la foresta al buio non suona propriamente allettante).
Ci addentriamo con il fuoristrada lungo un sentiero indicatoci dai guardiani. In lontananza si distinguono alcune capanne, ma la via si e’ fatta stretta e non possiamo proseguire con l’auto. Cosi’, ci fermiamo, il cognato di Mr Coffee
raggiungera’ a piedi le capanne e cerchera’ di negoziare ospitalita’ per i due.
Attendiamo appoggiati ai lati del fuoristrada, ascoltando le voci della foresta. Mr Coffee pulisce le lenti degli occhialoni con la maglietta dei Ramones. Ogni tanto, a turno, sputacchiamo qualche nocciolo di rambutan. Il giovane laotiano nel frattempo ha raggiunto le capanne e lo vediamo parlare con una donna, poi con un uomo, poi con un altro uomo. Mentre parla fa ampi gesti con le mani. Al termine della breve conversazione, accenna un saluto e riprende il sentiero, dirigendosi verso di noi. Tutti speriamo porti buone nuove. Ci raggiunge e dice, semplicemente:
”Questa volta non vi posso aiutare, non parlano laotiano”.
(CONTINUA)

martedì 31 agosto 2010

PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE PRIMA.

Non c’e’ regola che non subisca eccezione, si sa. Dunque - malgrado proprio
nell’ultimo post avessi proclamato che in genere non ritengo interessante per il “lettore” descrivere i luoghi che visito o come trascorro il tempo – oggi vi parlero’di una giornata di viaggio. Semplicemente, ho pensato di raccontarvela perche’credo rappresenti davvero bene quello che intendo come autentico, profondo, spirito del "Viaggio".
Giusto per collocare gli avvenimenti nel tempo, la giornata risale a circa tre mesi fa, quando ero appena giunto nel Laos meridionale.
Dunque, a Pakse una mattina me ne vado alla stazione intenzionato a prendere un bus locale per Si Phan Don (le "quattromila isole sul Mekong"; chi fosse interessato, potra' dare un'occhiata su un motore di ricerca). Ma il bus, mi dicono, non c'e'.
“Scusi, non e’ questa la stazione dei bus?”.
“Si’. Ma di bus per Si Phan Don ce n’e’ solo uno al giorno, in prima mattinata. Partito”.
“Ahi. Ed io adesso a Si Phan Don come ci arrivo?”.
“Con uno di quelli”. E mi indica una fila di sawngthaew in attesa (come ho detto altre volte, si tratta di camioncini “riadattati” a trasporto persone, su cui in genere ci si comprime tra sacchi di riso, mercanzie varie, animali da cortile ed altre anime penitenti che devono intraprendere il medesimo viaggio, seduti su non propriamente confortevoli panche di duro legno).
Gesu’. “Quanto ci mette il sawngthaew ad arrivare a Si Phan Don?”.
“Quattro ore”. Il che, siccome il Laos non e’ proprio la Svizzera, sta a voler dire almeno sei ore.
Schiena (e fondoschiena) prontamente si ribellano: “Noi su quel coso oggi non ci saliamo!”.
Ed ora che si fa? Domando: “Dove e’ diretto il prossimo bus in partenza?”.
“A Paksong”.
“Bene, un biglietto per Paksong”.
Dopo circa un’ora e mezza, l’autista mi fa capire che ci siamo arrivati, a Paksong, e mi scarica in mezzo ad una strada lunga e polverosa, su cui si affaccia qualche raro edificio.
Ad un tale che se ne sta li’ seduto su una panchina e mi dice “hello” domando "Da che parte devo andare per il centro (della citta’)?”.
Risponde: “Questo e’ il centro”.
Ah. Immagino che Paksong non figuri nella classifica delle citta’ piu’ animate della terra.
“E un posto dove dormire, un albergo, dove lo trovo?”.
“Ce l’ho io l'albergo”.
Questo tipo non sara’ di molte parole ma comincia a piacermi.
“Bene. E nel tuo albergo quanto costa una stanza?”.
“Cinque dollari”.
“Mi sembra ragionevole. Andiamo, mostrami questo Sheraton.
Beninteso, Paksong non e’ il posto che consiglierei a chi voglia far shopping sfrenato o darsi alla vita notturna, ma tutta l’area circostante – l’Altopiano del Bolaven – e’ davvero bellissima. Vaste distese di foresta primaria, cascate che precipitano spumeggianti in profondissime vallate ed un clima piacevolemente fresco, grazie all’altitudine.
Dopo un paio di giorni, visto che la zona tutt’intorno l’ho visitata, mi viene il desiderio di andare piu’in la’, allontanarmi ancora dall'itinerario a cui avevo originariamente pensato. Voglio raggiungere "Nam Tok Katamtok".
La guida "Lonely Planet" (al di la' di cio' che possano dire quelli che vogliono sempre differenziarsi, tuttora la miglior guida a disposizione del viaggiatore indipendente) cosi' descrive Nam Tok Katamtok: "una sbalorditiva cascata con un salto di 120 metri situata in una giungla fitta e remota" aggiungendo che si tratta della "cascata piu' spettacolare del Laos, anche perche' per trovarla bisogna essere quasi degli esploratori". La cascata si trova tra le "aspre e remote province di Sekong e Attapeu, che costituiscono il selvaggio est del Laos".
Cosi', domando al mio buon amico albergatore (dal quale alla fine ho soggiornato per quattro giorni): "Come ci arrivo a Nam Tok Katamtok, c'e' un bus?".
"No. Per la verita' non c'e' neppure la strada".
"Ma ci sara' pure un modo. Il tizio che l'ha scritto sulla Lonely, a meno che non sia un gran buontempone, ci dovra' essere arrivato".
"Forse puoi trovare qualcuno che ti ci porti con un fuoristrada. Ma non so, e' difficile. In ogni caso, considerato che tra Paksong e Nam Tok Katamtok ci sono
un centinaio di kilometri, il costo per l'autista ed il carburante sarebbe molto
elevato. Oppure ti posso procurare una moto. Pero' ti avverto: fino a Sekong la
strada e' asfaltata ed in discrete condizioni; poi c'e' solo uno sterrato che attraversa la foresta, percorso di rado. Se, che so, fori o rompi, te ne torni a piedi".
"Grazie per la franchezza. Niente moto. Pazienza, non vedro' Nam Tok Katamtok.
Quella stessa sera pero' l'albergatore bussa alla mia porta. "Vuoi ancora andare a Nam Tok Katamtok?" mi sussurra con voce da cospiratore.
"Si', pero' senza spendere quanto ho previsto come budget per tutta la permanenza in Laos e senza il rischio di farmela a piedi", sussurro a mia volta (chissa' poi perche' stiamo sussurrando).
"Allora vai a parlare con Mr Coffee".
"E chi e' Mr Coffee?".
"E' un olandese che ha sposato una laotiana e gestisce un piccolo bar qui a Paksong. Vacci ora, a piedi ci arrivi in una ventina di minuti, portati una torcia. Il bar sara' chiuso, bussa".
"Si' ma da Mr Coffee che ci vado a fare? Il caffe' l'ho gia' preso, grazie".
"Mr Coffee ha un fuoristrada ed ho saputo che domattina accompagnera' due scienziati (o qualcosa del genere) dalle parti di Nam Tok Katamtok. Ci andate tutti insieme e dividete la spesa. Semplice".
"Capito. Ottimo. Ci vado subito".
Quando sto per uscire mi richiama: "Senti: Mr Coffee... e' un tipo un po' strano sai. Ma e' una bravissima persona".
Rido: "Va bene. Anch'io sono un tipo un po' strano ma sono una bravissima persona".
Mr Coffee lo incontro, quella sera. E' alto alto e secco secco. E' l'uomo piu' rilassato della terra. Fuma come un turco e trascorre buona parte del tempo sciolto su un'amaca appesa davanti a casa. Ogni tanto si alza e mette la moka (cielo, una moka!) sul fuoco. Permettetemi qualche rapida notazione biografica: Roger (questo e' il suo vero nome) viveva e lavorava ad Amsterdam. Casa, ufficio, casa. In ufficio vedeva le facce lunghe dei colleghi, a casa la faccia lunga della moglie. Un giorno, neppure lui sa come e perche', gli viene l'insano pensiero di lasciar la moglie a casa e andarsene a trascorrere le ferie, da solo, in Cina. Al ritorno, riprende la sua vita, casa e ufficio. Ma dura poco. Divorzia, abbandona il lavoro e con i risparmi che ha raccimolato parte per l'Asia. Cammina per due anni e mezzo e poi, un giorno, sente che e' venuto il momento di fermarsi. E, dato che quel giorno si trova proprio a Paksong, li' si ferma (elementare). Si risposa e diventa Mr Coffee. Questo e' quanto, in estrema sintesi.
Tornando a noi, Mr Coffee mi spiega la faccenda di Nam Tok Katamtok e degli scienziati. Si tratta di due ricercatori che studiano insetti; in particolare, scarafaggi. Uno e' svizzero, l'altro ceco (nel senso che e' nato a Praga, non nel senso di "non vedente"; anche perche' a studiar insetti la vista occorre avercela buona). Cosa induca un uomo a specializzarsi in studio degli scarafaggi mi e' oscuro, ma tant'e'. Orbene, questi due studia-blatte vogliono andare a starsene per un paio di settimane nelle foreste tra Sekong e Attapeu perche', in base alle loro abominevoli ricerche, sono convinti che da quelle parti vivano delle specie rare di scarafaggi. Nella foresta primaria pero' di alberghi e ristoranti non ce ne sono. Dunque, per dedicarsi in santa pace alle loro ricerche, i due hanno pensato di portare con se' un approvigionamento sufficiente di acqua potabile e viveri e di trovare ospitalita' in uno dei villaggi della zona. Non si tratta propriamente di sistemazioni confortevoli, tenuto conto che si vive in capanne, senza acqua (l'acqua ce la si procura al fiume piu' vicino) e senza corrente elettrica. Ma - immagino concorderete - la possibilita' di trascorrere del tempo in compagnia dei summenzionati graziosi animaletti varra' bene qualche sacrificio. I due hanno pero' sin da subito capito che che, per realizzare l'impresa, sarebbe stato necessario l'aiuto di qualcuno che conoscesse la zona e potesse accompagnarli e metterli in contatto con un capo villaggio. Insomma, l'uomo giusto per una missione tanto bizzarra. E l'uomo giusto, a Paksong, e' lui: Mr Coffee (perdonate la solennita', ma qui ci stava proprio bene!). Ecco, dunque, il piano: Mr Coffee possiede uno sgangherato fuoristrada con cui accompagnera' i due folli negli "aspri e remoti" territori di cui vi ho detto. Lungo il percorso la comitiva si fermera' a Nam Tok Katamtok (sempre che riesca a trovarla). Dopo di che, procurata una sistemazione per i due, Mr Coffee fara' ritorno a Paksong, quello stesso giorno, prevedibilmente a tarda sera.
Insomma, ci sono tutti i presupposti affinche' prenda parte anch'io alla spedizione: accompagnero' l'allegra combricola a Nam Tok Katamtok ed alla ricerca del villaggio e poi me ne tornero' a Paksong con Mr Coffee.
Cosi', ci si accorda per incontrarci la mattina successiva, alle sette, di fronte al bar.
(CONTINUA)

lunedì 16 agosto 2010

LETTERA AI MIEI AMICI E CONOSCENTI PER QUANDO FARO' RITORNO

Vi propongo un patto. Quando faro' ritorno, quando ci incontreremo, non fatemi, riguardo al viaggio, domande che vi sentite in obbligo di fare. Ed io non daro' risposte che mi sentirei in obbligo di dare.
Un viaggio di alcuni mesi “in solitaria” (in realta' l'espressione e' inappropriata, dato che lungo il cammino si incontrano e si condividono momenti con decine di persone) e', per chi la compie, un'esperienza straordinaria, profonda, indimenticabile. Ma il viaggiatore, al suo ritorno, non puo' pretendere che l'esperienza appaia altrettanto speciale agli occhi di chi non l'ha vissuta in prima persona.
Il progresso tecnologico ha consentito di relegare al passato una delle piu' sottili ed efferate torture concepite dal genere umano (tanto piu' crudele in quanto in genere perpetrata a danno di familiari ed amici): la proiezione delle diapositive dei propri viaggi. Chi del viaggio era stato protagonista diretto si compiaceva nel rivedere sul grande schermo bianco le immagini del luoghi visitati. Ma per l'incolpevole spettatore, a meno che non nutrisse un effettivo interesse per quei medesimi luoghi, la situazione si rivelava, in genere, d'una noia devastatante (fortunatamente, per la proiezione era necessaria l'oscurita; il che, se si aveva avuta la prontezza di conquistare un buon posto a sedere, possibilmente una poltrona, permetteva talvolta di farsi delle epocali dormite).
Bene, questo genere di sensazione io non voglio che abbia mai a verificarsi. Il mio viaggio, per me, per i miei occhi, la mia mente, il mio corpo e' un'esperienza cosi' grande e importante che non voglio, non posso pensare di trovarmi a parlarne, al mio ritorno, a persone annoiate, che mi domandano se il tempo sia stato bello e mi siano piaciuti i paesi che ho attraversato, cosi', per pura, necessaria, cortesia, senza un reale interesse a conoscere la risposta.
Per questo ho sin da subito immaginato, per la prima volta in vita mia, di fare ricorso ad un “blog”. Chi vuole, legge; chi non e' interessato, non legge. Elementare.
Per questo, in genere, non pubblico sul blog descrizioni delle localita' in cui mi trovo o “consigli per il turista” (una buona guida potra' fornirvi informazioni enormemente piu' utili e dettagliate di quelle che potrei darvi io), quanto, piuttosto, piccoli anedotti curiosi, sensazioni, frammenti di dialoghi o immagini.
Per questo, infine, penso che a partire dal giorno successivo al mio ritorno non faro' piu' parola di questo viaggio. Quel che voglio dire, lo trovate qui. Con un semplice click.
A meno che non siate davvero interessati a sapere.
A meno che non vogliate davvero conoscere, capire. Magari perche' progettate di visitare nel prossimo futuro questi stessi paesi. O magari solo perche' siete, genuinamente, curiosi.
In questo caso, non ci sara' per me piacere piu' grande che parlare, per quanto tempo vorrete, raccontare, ripercorrere con voi queste strade, queste citta', villaggi, queste montagne, questi campi di riso. Queste persone, questi sorrisi, queste strette di mano. Tutto cio' che a pensarci, anche ora, mentre scrivo, mi permette di dire che sono felice.

P.S.: Con riguardo a quanto ho detto sopra, ho pensato, per semplificare le cose, di redigere un'utile tabella riepilogativa delle piu' consuete domande “d'obbligo”, con le relative risposte.

1) Ti e' piaciuto fare questo viaggio?
Si'
2) Faceva caldo?
Si'
3) Pioveva spesso?
No
4) Ma non ti sei annoiato a viaggiare da solo?
No
5) Ma non hai avuto paure / preoccupazioni / timori a viaggiare da solo?
No
6) Ma non hai avuto problemi di salute dovuti all'alimentazione (corse al gabinetto, etc.)?
No
7) Come ti spostavi da un luogo all'altro, con i mezzi pubblici?
Si'
8) Hai conosciuto molte persone durante il viaggio?
Si'
10) Dove dormivi, in albergo? E' vero che hai dormito anche in tenda, bus, treno, barca e che spesso sei stato ospitato da persone del posto?
Si'
11) Hai mangiato tanto riso?
Si'
12) Hai mangiato tanti noodles?
Si'
13) Usavi i bastoncini per mangiare?
Si'
14) Hai bevuto tanto the?
Si'
15) E' vero che le donne asiatiche sono belle?
Si' e no
16) E' vero che in Birmania non si possono usare bancomat e carte di credito, i cellulari non funzionano e molti siti internet sono bloccati dal governo?
Si'
17) E' vero che in Vietnam Facebook e' bloccato dal governo ma tutti, a partire dai bambini di due anni, lo usano perche' conoscono il trucchetto per aggirare il blocco?
18) Hai letto molti libri?
No
19) E' vero che una pinta di Bia Hoi (birra alla spina) ad Hanoi costa solo 4.000 dong (pari a 15 centesimi di euro)?
Si'
20) Hai speso molto?
No

giovedì 12 agosto 2010

VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE TERZA.

CLEMENCE
Puo' capitare che la vita scorra per lungo tempo lentamente e poi, d'improvviso, si metta a correre.
Cosi', per molti anni, la vita di Clemence e' trascorsa lenta e regolare.
C'e' una cosa in cui Clemence ha sempre eccelso: stare con la testa china sui libri. Siccome genitori, fratello e zii di Clemence sono tutti stimati medici ed appartengono alla "buona borghesia" di Bruxelles, non e' difficile immaginare quali studi abbia intrapreso. Dopo una laurea in medicina conseguita, come si suol dire, brillantemente, Clemence ha superato anche un arduo esame internazionale a Parigi ed ha completato la specializzazione in "chirurgia oculistica".
Al termine della specializzazione, un eccellente posto di lavoro era gia' assicurato per Clemence (che, per inciso, lo meritava totalmente, date le capacita' dimostrate durante gli studi).
Dunque, tutto lascia immaginare che la vita di Clemence proseguira' ovattata e lineare; semplicemente, la mattina, anziche' percorrere la strada che conduce all'universita', si dirigera' verso la clinica.
In prossimita' dell'inizio di questa nuova attivita', Clemence decide di organizzare una festa, per celebrare con familiari ed amici il completamento dei corsi. Ci si trovera' tutti insieme e l'occasione le permettera' anche di rivedere persone che, standosene sempre chiusa in biblioteca o in un qualche reparto d'ospedale, ha, suo malgrado, perso un po' di vista. In particolare e' felice di poter trascorrere un po' di tempo con un cugino, al quale e' molto affezionata, e con la sua fidanzata. I due ragazzi (entrambi molto giovani, poco piu' che ventenni) sono andati a vivere insieme in un'altra citta' e progettano di sposarsi.
La serata trascorre molto piacevolmente ed al termine ci si abbraccia, ci si bacia e ci si promette di rivedersi quanto prima.
Esattamente sette giorni dopo Clemence riceve una chiamata sul cellulare. Ascolta. Non dice una parola. Chiude la comunicazione.
La voce che usciva dal telefono le ha detto che i due ragazzi sono appena morti. Insieme, un incidente stradale, uno dei tanti.
Il funerale e' una cosa straziante. In chiesa le due bare vengono disposte l'una accanto all'altra, quasi si trattasse del matrimonio che non ci sara'.
Clemence e' cosi' attonita, distrutta, che quasi non le riesce di piangere.
Allo stesso tempo, qualcosa, dentro di lei, ha cominciato a correre.
La sera, tornata dal funerale, verifica a quanto ammontino i suoi risparmi; dato che non e' mai stata persona dedita a far delle gran spese, si tratta di una somma piuttosto consistente.
Il lunedi' successivo, Clemence acquista un biglietto "Round-The-World" (in sostanza, un biglietto aereo, in genere della validita' di un anno o piu', che permette, ad un prezzo forfetario, di fare il giro del mondo; fermandosi, per quanto tempo si voglia, nelle varie localita' che s'intendono visitare).
Ai familiari, i quali (pur comprendendo il difficile momento sul piano emotivo) cercano di convincerla che si tratti di una pessima idea, perche' comporterebbe la probabile perdita di un'importante opportunita' lavorativa, Clemence risponde semplicemente: "Devo farlo. Non si tratta di volerlo o non volerlo. Devo".
Quando la incontro, durante un trekking di qualche giorno nelle foreste del Bokeo (una regione del nord del Laos), Clemence e' in viaggio da tredici mesi. E' stata in America latina, in Polinesia, in Nuova Zelanda ed in Australia ed ora e' in Asia.
Clemence e' sempre sorridente e piena di energie, non e' mai stanca e le difficolta' non la preoccupano.
Clemence dice: "Sai, forse, per vivere una buona vita, sarebbe bene ogni giorno dedicare qualche minuto al pensiero della propria morte. Pensare che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo. Che dici, come filosofia esistenziale suona piuttosto spiccia, giusto? Ma sai che c'e'? E' maledettamente vero, Edo, e' maledettamente vero".
Poi solleva il bicchiere di succo di canna da zucchero che tiene tra le mani, dice "salute!" e se lo gusta come se non avesse mai sentito un sapore cosi' delizioso prima d'ora.
Clemence cammina per le strade del mondo ed a tutti quelli che le domandano "Hey, you, where are you from?" sempre risponde "From the moon".

domenica 8 agosto 2010

VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE SECONDA.

MARIE
Sin da quando era molto giovane, Marie ha viaggiato in lungo e in largo. Ha visitato le Americhe, l’Africa, ha trascorso un periodo in Australia. Ma il continente che meglio conosce e che ama profondamente e’ l’Asia.
Dopo tanto viaggiare, Marie e’ tornata in patria (anche lei e’ svizzera), si e’ innamorata, si e’ sposata ed ha avuto due figlie. Per un lungo periodo (e tutti sappiamo quanto l’incedere del tempo sia crudelmente rapido) lo zaino e’ rimasto a riposare dentro uno scatolone, in soffitta.
Ogni tanto – in genere due o tre volte l’anno – Marie ci tornava in Asia, per lavoro. Ma si trattava di meeting condensati e frenetici, una volta a Bangkok, una volta a Kuala Lumpur. Scendeva dall’aereo e subito si ritrovava su un taxi con aria condizionata e dal taxi nella camera dell’hotel a cinque stelle che le era stato assegnato. Se non fosse stato per i timbri sul passaporto, a volte non si sarebbe neppure accorta di aver lasciato l’Europa per qualche giorno.
Dopo alcuni anni e’ accaduto cio’ che, pare – cosi’ dicono le statistiche – avvenga a molte coppie: Marie e suo marito si sono separati.
Nel riordinare le vecchie cose, Marie trova lo scatolone. E lo zaino. E con lo zaino, il desiderio di ricominciare a viaggiare. Ma non viaggera’ da sola; portera’ con se’ le sue figlie (che ora hanno, l’una tredici e l’altra undici anni): il regalo piu’ bello che possa far loro. Ovviamente, dati i rispettivi impegni lavorativi e scolastici, si trattera’ di viaggi brevi, durante le ferie. Quel che conta, comunque, e’ che vedranno qualche pezzo di mondo insieme.
Come vi ho detto, nel corso degli anni Marie ci era ricapitata spesso in Asia.
Ma in un posto non aveva mai voluto far ritorno: a Pechino. Durante i suoi studi in “orientalistica” (credo si dica cosi’), Marie aveva vissuto per oltre un anno a Pechino, frequentando l’Universita’ e studiando il cinese (che ora parla fluentemente).
Come molti altri studenti, Marie abitava all’interno del “campus” universitario. La sua stanza si trovava all’ultimo piano di una piccola palazzina, che si raggiungeva attraversando un bel parco, molto curato. In mezzo al parco c’era un laghetto, intorno al quale gli studenti si incontravano per parlare, leggere, riposare. Insomma, un’isola di – apparente – serenita’ nel cuore della Pechino della repressione e delle retate nelle case dei dimostranti (1992: erano trascorsi appena tre anni dai massacri di Tien An Men).
Completato questo periodo di studi all’estero – per lei molto bello ed
emozionante – era rientrata in Europa. Sin da subito, aveva detto a se’ stessa che a Pechino non ci sarebbe tornata. Mai piu’. Sapeva che non appena, a distanza di anni, avesse rimesso piede a Pechino (una delle metropoli del mondo che nel corso degli anni ha subito le maggiori trasformazioni), la citta’ dei suoi ricordi, della sua giovinezza, si sarebbe dissolta. E questo non lo voleva.
Qualche mese fa, pero’, Marie viene invitata ad un convegno. A Pechino. E questa volta accetta di andarci. Dato che il convegno si terra’ alla fine di giugno, si tratterra’ per qualche giorno nella capitale cinese e poi prendera’ un volo per Bangkok, dove incontrera’, all’aeroporto, le figlie, in arrivo dall’Europa. Da li’ inizieranno insieme un tour di un paio di settimane attraverso Thailandia e Laos (dove ci siamo conosciuti).
Cosi’, dopo diciotto anni, Marie e’ di nuovo a Pechino. Ad un tale che le domanda quale luogo della citta’, palazzo, monumento, desideri visitare terminata la mattinata di interventi dei relatori, Marie risponde d’istinto “L’Universita’. Voglio vedere l’Universita’”.
E ci va, ci torna. Quando il taxista le dice “siamo arrivati”, per un momento
crede si stia sbagliando. Ma no, non sbaglia, sono proprio arrivati, e’ l’Universita’ di Marie. Solo che – come del resto si aspettava – tutto e’ cambiato. All’ingresso principale si accede ora da un’altra via. Hanno realizzato delle nuove costruzioni, moderne, con grandi vetrate. Percorre corridoi sconosciuti. Ogni tanto passa qualche studente o impiegato; nessuno le domanda nulla. E lei continua a camminare, in silenzio. Giunta sul retro del nuovo edificio, si dirige verso l’area del parco. Qui ci sono dei lavori in corso, attraversa un cantiere, perde un poco l’orientamento. Sino a quando, voltato l’angolo, la vede: la palazzina, quella in cui ha vissuto per un anno. Intatta, uguale ad allora, nulla e’ cambiato. Ed il lago, come allora, come quando c’immergeva i piedi, sdraiata sull’erba.
Sta li’, ferma a guardare. Gli occhi le brillano, quasi si mette a piangere.
La macchia azzurra del lago le riporta alla mente un episodio lontano, accadutole mentre era studentessa a Pechino e poi rimasto a riposare sotto pile di ricordi.
La storia che mi ha raccontato Marie su quel che le successe nel parco, accanto al lago, mi e’ piaciuta cosi’ tanto che ho pensato fosse bello la conosceste anche voi. Ora provero’ a raccontarvela.
All’universita’, la separazione tra gli studenti stranieri “ospiti” e quelli cinesi era piuttosto rigida. Benche’ per alcune materie di studio i corsi fossero comuni, molto difficilmente si stabilivano rapporti di frequentazione tra gli stranieri – che costituivano una sorta di enclave – e gli studenti cinesi. Le autorita’ accademiche facevano in modo di preservare questa “separazione”: la Cina non era pronta ad aprirsi al mondo.
Marie – che ha sempre amato distinguersi – faceva eccezione. Preferiva, per quanto possibile, trascorrere il tempo con gli studenti cinesi, piuttosto che con quelli europei o americani.
In particolare, aveva stabilito un rapporto di grande, profonda, amicizia con un ragazzo cinese, prossimo a terminare gli studi, insieme al quale trascorreva dei bei
pomeriggi a conversare degli argomenti piu’ vari. In genere parlavano cinese (era Marie a pretenderlo); solo quando la formulazione della frase si presentava davvero complessa, Marie ricorreva all’inglese.
Un giorno d’autunno, capita che Marie ed il suo amico si trattengano piu’ del consueto a parlare nel parco e cosi’ cominci a far buio.
Percorrendo il sentiero che conduce all’ingresso del campus, Marie e questo giovanotto si mettono, per scherzo, a simulare un combattimento di arti marziali. Insomma, accade che, tra una spinta ed uno sgambetto, i due perdano l’equilibrio e si ritrovino per terra, sull’erba, l’uno accanto all’altra. E che li’, senza che ci avessero pensato, si diano un bacio. Solo un piccolo, breve, bacio. Subito si ritraggono, restano solo li’, sdraiati, a ridere di gusto. La mala sorte vuol pero’ che alla lotta, alla caduta e, soprattutto, al bacio (atto oltremodo contrario alla pubblica decenza!) abbia assistito uno dei guardiani del parco – una sorta di militare – il quale sopraggiunge strillando ed intimando ai due di alzarsi. Dopo di che, rivolgendosi al giovane, sbraita che informera’ del grave fatto accaduto (!) il Direttore, affinche’ si provveda a sanzionare un comportamento cosi’ riprovevole.
Il ragazzo cerca di buttar fuori qualche parola, di spiegare, ma la guardia non gli consente di parlare e continua a ripetere come un disco rotto che informera’ la Direzione, che se la dovra’ vedere con la Direzione, che questa condotta “indecente” verra’ punita.
Tutto il dialogo e’ avvenuto in cinese ma Marie ha ben compreso le minacce del guardiano e sa quali potrebbero essere le conseguenze per il suo amico: addirittura l’espulsione. Cosi’, senza aver fatto nulla, a pochi mesi dal completamento degli studi.
Marie non puo’ permettere una simile, assurda, ingiustizia. Va a mettersi tra il ragazzo ed il guardiano e, per quanto agitata, in un ottimo cinese, ripete a quest’ultimo che non facevano nulla di male e non c’e’ proprio nulla da denunciare, stavano solo scherzando, giocando. Ma quello neppure si degna di guardarla (e’ donna ed e’ straniera: due elementi che nel frangente certo non giocano a favore di Marie), si volta rapido e si allontana a passi lunghi e regolari.
Marie a questo punto e’ in lacrime e domanda all’amico “Ed ora che succede? E’ una cosa grave… e’ grave, vero?” e poi “Dobbiamo fermarlo, dobbiamo parlare con qualcuno, dire che non facevamo nulla, ora!”. Lui, pur apparendo molto scosso, le risponde di non preoccuparsi, che se la cavera’, spieghera’, lei non c’entra, non si preoccupi. Ma a Marie, che – immagino lo abbiate inteso – e’ di indole piuttosto combattiva, questo epilogo non va affatto bene. Cosi’, si mette a correre dietro al guardiano e, raggiuntolo in prossimita’ del laghetto, gli si para davanti, lo trattiene, gli dice che si sta sbagliando di grosso e che e’ lei a voler parlare con il Direttore, vuole parlare con qualcuno, adesso. Il militare – che questa volta davvero non puo’ fingere di non vederla ne’ sentirla – si scansa e, riprendendo a camminare veloce, risponde che lei non ha il diritto di parlare con nessuno, che non c’e’ nessuno che possa ascoltarla; che lui ha visto e questo basta.
Marie si ritrova li’, con le braccia a penzolare lungo i fianchi e gli occhi a fissare la schiena dell’uomo che si allontana.
E allora fa qualcosa di folle. Qualcosa di meravigliosamente folle.
Con tutto il fiato che ha in corpo grida “Aiuto!” e poi si mette a correre, spicca un gran salto e, cosi’ com’e’, vestita, con le scarpe ai piedi, si getta nel lago. In breve, ne segue un gran trambusto: si sono accese luci alle finestre, accorrono studenti, altri guardiani, qualcuno avverte un responsabile della Direzione, il quale, molto allarmato dalla prospettiva di uno studente straniero annegato all’interno del campus, pure sopraggiunge con inconsueta rapidita’. Insomma, Marie, viene soccorsa, tirata fuori dall’acqua, portano delle coperte (essendo autunno il clima e’ piuttosto rigido), le domandano come si senta. E lei, a voce ben alta e scandendo le parole, dice loro: “Adesso, per favore, mi dovete ascoltare”. E racconta l’accaduto.
Il giorno successivo, Marie ed il suo amico vengono ricevuti, separatamente, dal Direttore in persona (come se avessero commesso un crimine efferato). Dopo aver parlato, per prima, Marie attende di sapere dal giovane se siano davvero stati presi dei provvedimenti e di che genere. Il tuffo nel lago, certo non si puo’ negare abbia richiamato l’attenzione sul fatto, ma Marie non e’ per nulla sicura che sia stata una buona “mossa”; insomma, potrebbe anche aver peggiorato la situazione.
L’amico la raggiunge nel pomeriggio e appena la vede le va incontro.
“Ti rendi conto di quello che hai fatto?”.
“Si’, credo di si’. E’ stata una cosa buona o cattiva?”.
“Con questo accidenti di freddo, ti sei gettata nel lago, potevi annegare, potevi…”.
“E’ stata una cosa buona o cattiva? Voglio dire, per te, cos’hanno deciso?...”.
“Sei una folle. Una folle totale. Ma mi hai salvato. Non fanno nulla. Marie, mi hai salvato”.
Diciott’anni dopo, li’, in riva al lago, seduta su una panchina, quelle parole le tornano cosi’ vive, accese, alla mente. Dopo tanto tempo.
Marie mi racconta: “La palazzina, sai, quella in cui avevo vissuto, per un anno. Intatta, uguale ad allora. Ed il lago, come allora, come quando c’immergevo i piedi, sdraiata sull’erba. Nulla e’ cambiato”.
E mentre lo dice gli occhi le brillano, quasi si mette a piangere.

lunedì 26 luglio 2010

“ALCUNI PICCOLI CURIOSI FATTI SPARSI”. EPISODIO TRE: Torna ad Hoi An.

Per quanto non risparmi critiche al Vietnam, devo riconoscere che Hoi An e’ bella. Specialmente la sera, quando nel centro storico si accendono le lanterne colorate e le candele. Tra tutte le sere, ce ne sono poi alcune davvero suggestive: quelle di luna piena, durante le quali il centro viene chiuso al traffico e ad ogni angolo di strada ci sono spettacoli, giochi ed esibizioni musicali. Cosi’, dato che la buona sorte ha voluto ad Hoi An ci arrivassi proprio una sera di luna piena, mi ritrovo a passeggiare tra musica e colori. Entro in un cortile dove sta per esibirsi un gruppo che propone musica tradizionale vietnamita. I musicisti indossano abiti tipici e ciascuno suona uno strumento “esotico”: il dan bau (uno strumento a corda locale), dei tamburelli, una specie di banjo, dei timpani. In genere di turisti ce ne sono parecchi, ma in questo momento il pubblico e’ formato prevalentemente da vietnamiti.
Dopo alcuni istanti di attesa silente, i musici iniziano ad eseguire il primo brano.
Ora, amici, vi giuro e stragiuro, non me lo sono sognato. C’ho fatto attenzione, ho atteso ed ascoltato un bel po’, tanto la cosa mi pareva incredibile.
In sintesi: e’ “Torna a Surriento”!
Cioe’, e’ lei, e’ lei, questi tizi vestiti da Kublai Khan in vacanza stanno suonando “Torna a Surriento”! Sono sobrio, non e’ che ci assomigli, e’ proprio lei.
Per un attimo vorrei alzarmi, balzar sul palco e mettermi a gridare “Santo cielo, costoro sono degli impostori! Altro che Vietnam, questa e’ roba nostra”.
Ma poi ci penso su’ e riconosco di dover loro gratitudine, per avermi consentito di tornare a scrivere sulla sempre sfavillante rubrica “Alcuni piccoli curiosi fatti sparsi”.
Nel frattempo, canticchio: “Non darme stu turmiento… torna ad Hoi An… famme campa’”.

sabato 10 luglio 2010

VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE PRIMA.

RALPH

Se pensate che i viaggiatori “a lungo termine” portino lunghe barbe e capelli incolti, indossino ampie camicie colorate e pantaloni indiani e calzino consumati sandali di pelle, se e’ questa l’immagine che avete in mente, bene, sappiate che con Ralph sbagliereste di grosso.

Ralph e’ ben rasato e pettinato. La camicia di Ralph e’ linda e stirata. Tutto in lui ispira ordine e lucida visione delle cose.

Ralph avra’ circa quarantacinque anni. Ha una casa, a Basilea, ma e’ in cammino per l’Asia da oltre dieci mesi. Quando gli domando quanto intenda ancora viaggiare, solleva un poco le spalle e stringe le labbra, fissando il bicchiere: “Un anno… due anni, forse”. Lo dice come se tra uno e due anni non ci fosse una gran differenza, come se si trattasse di decidere se rientrare dal fine settimana al mare la domenica sera o il lunedi’ mattina. Non gli chiedo altro.

La sua prima tappa e’ stata la Birmania. Ci si e’ fermato per piu’ di sei settimane.

“Hai domandato l’estensione del visto?”.

“No. Semplicemente, sono arrivato all’aeroporto ed ho detto: - Scusate, sono in ritardo -. Ho pagato una specie di multa, pochi dollari. Sono una brava persona, che altro potevano farmi?”. E sorride.

In Birmania, Ralph si e’ spinto sin nelle province settentrionali, oltre Shwegu e Bhamo. In tutta la regione di stranieri ce n’era uno: Ralph. Poi ha fatto ritorno a Mandalay in barca, percorrendo l’Irrawaddy. La barca e’ partita ma non si sapeva quando sarebbe giunta a destinazione: dato che si era ancora nella stagione secca il livello dell’acqua era molto basso. Ci e’ voluta una settimana. Il battello s’incagliava ed occorreva trainarlo e spingerlo con dei lunghi e robusti remi per rimetterlo in galleggiamento. Lungo il tragitto, Ralph avrebbe potuto, come si suol dire, abbandonare la nave ed, in qualche modo, arrivarci via terra a Mandalay. Ma gli erano bastate poche ore per sentirsi parte della compagnia di naviganti – sebbene nessuno fosse in grado di dire piu’ di tre o quattro parole in inglese – ed ha capito che l’impresa era diventata anche sua e doveva arrivarci sino in fondo.

Ora, qui in Laos, sta percorrendo le strade del Khammuan in moto. La moto l’ha affittata a Tha Khaek. “Non ero mai salito su una motocicletta in vita mia. Ma non e’ difficile, si tratta di muovere un poco i polsi e un piede. E’ divertente. C’e’ sempre una prima volta, non credi?”.

La sera, davanti ad un paio di Beerlao, Ralph racconta: le citta’ che ha attraversato, i villaggi di confine, il mare.

Ralph dice: “Quando viaggi, quando sei in viaggio, da molto tempo, arriva un momento in cui senti un ‘click’. Un click, sai, qui, nella testa. Magari arriva quando non te l’aspetti, un pomeriggio o una notte. C’e’ un ‘prima’ e c’e’ un ‘dopo’. Il ‘click’ significa che sei passato al dopo”.

CARMEN

Con Carmen ci si e’ trovati la prima volta in una sorta di “comunita’” per viaggiatori, a Bangkok, nei pressi del Victory Monument. Una casa, grande, su tre piani, con un’ampia sala dal soffitto basso, una caotica cucina e parecchie piccolo stanze. I proprietari, una coppia di giovani thailandesi, la mettono a disposizione dei viaggiatori. Non chiedono nulla in cambio: chi viene, se vuole, porta quello che puo’ tornar utile e lo mette sul tavolo. Caffe’, frutta, verdura, cioccolato. C’e’ chi porta delle cartaigienica, chi regala dei libri. Quando si e’ in molti, alcuni dormono nella sala, l’uno accanto all’altro, su dei materassi sottili o su delle stuoie distese sul pavimento di legno. Qualcuno cucina e si cena insieme. Anche per la cena non c’e’ un prezzo; solo un’ampolla di vetro accanto ad un piccolo cartello colorato: ‘Se volete dare un contributo, l’offerta consigliata e’ di cinquanta bath’. Cinquanta bath sono poco piu’ di un euro.

Davvero non so dirvi come tutto questo possa funzionare. Ma funziona.

Carmen, dicevo. Carmen e’ di Buenos Aires, ha trentaquattro anni ed e’ in viaggio da quattordici mesi. Dieci mesi li ha trascorsi in India, poi e’ arrivata nel sud est asiatico.

La prima cosa che mi dice e’: “Sai, sono stanca. Mi fermo per un po’ a Bangkok, devo riposare”.

A Carmen lo chiedo: “Come fai? Intendo, i soldi, per viaggiare cosi’ a lungo”.

Mi dice di possedere una casa a Buenos Aires; l’ha affittata e con quanto ricava dall’affitto, viaggia. “Prima di partire ho venduto tutto quello che avevo; il computer portatile, la chitarra, tutto, per partire”.

Carmen e’ cordiale ma sorride di rado. Pare davvero molto stanca. Inoltre, per continuare a viaggiare deve far economia su qualunque cosa. Racconta ad un ragazzo thailandese di avere un budget giornaliero di quattrocento bath (circa dieci euro). Con quattrocento bath puoi vivere, ma davvero non e’ semplice. Dormi in camerate e mangi al mercato. E devi ancora considerare i soldi per gli spostamenti. Non credo riesca a rispettare il limite di spesa che si e’ data.

Verrebbe naturale domandarle, dato che appare cosi’ stanca ed e’ in ristrettezze economiche, perche’ non concluda l’esperienza e se ne torni a casa. Forse non lo sa neppure lei.

Per quanto avverta la necessita’ di riposare – e per questo abbia stabilito di fermarsi a Bangkok per qualche tempo – sa gia’ che si trattera’ comunque di una sosta breve. Probabilmente, non piu’ di qualche giorno. Poi il bisogno di sentire il peso dello zaino sulle spalle, di ripartire, tornera’ a bruciare, sara’ piu’ forte. Dopo Bangkok, andra’ a nord. Non ha – come del resto non ha mai avuto – in mente un itinerario preciso. Quello che sa e’ che andra’ a nord e questo basta.

Il giorno successivo sono io a partire, mi dirigo a sud e, dunque, le nostre strade si separano.

Il caso vuole che ci si incontri nuovamente circa due mesi dopo, a Nong Khiaw, tra le montagne del nord del Laos. Mangiamo insieme della frutta seduti su una panchina della polverosa stazione dei bus. Un po’ parliamo un po’ stiamo in silenzio a guardare i bambini che vanno a scuola. Mi mostra il passaporto con impresso il visto per l’ingresso in Cina. “Te l’avevo detto che vado a nord”. E’ contenta che il visto abbia una validita’ di sessanta giorni, cosi’ potra procedere lentamente, senza fretta.

Ha anche un “piano di viaggio”: attraversera’ la Cina e raggiungera’ la Mongolia. Dalla Mongolia andra’ in Russia. E dalla Russia in Europa. “Devo procurarmi qualche abito ‘pesante’, l’inverno in Russia sara’ un po’ piu’ rigido di quello che ho trascorso in India, che dici?”. Questa volta sorride.

Poi mi legge i pensieri e risponde ad una domanda che non le ho fatto. “Non posso tornare a Buenos Aires. Sai, la casa, l’ho data in affitto, dovrei trovarmi un posto dove stare”. Si ferma un attimo a pensare. “Se tornassi in Argentina ora, impiegherei almeno un anno a procurarmi i soldi per un nuovo biglietto aereo. Un biglietto per l’Europa o per l’Africa. O per tornare in Asia”.

“Per partire, per viaggiare, ho venduto tutto quello che avevo, tutto”.

domenica 27 giugno 2010

WHERE ARE YOU GOING?



Dunque, riprendo da dove mi ero fermato: l’autobus, il risveglio, dal sogno.
E’ questo il momento in cui siete vulnerabili. Il momento in cui il “Where are you going?” puo’ cogliervi, davvero, impreparati.
Ora vi spiego cosa intendo.
Se viaggiate – in particolare se viaggiate da soli – e vi muovete spesso da una localita’ all’altra, vi troverete a dover mandare a mente un sacco di nomi “esotici”.
Qualche esempio.
Quando, in Thailandia, ho deciso di raggiungere da Sukhothai il parco di Khao Yai, ho dovuto: prendere un tuk-tuk (il famigerato “ape” riadattato a trasporto persone) da Old Sukhothai a New Sukhothai; poi un autobus da New Sukhothai a Phitsanulok; altro bus da Phitsanulok a
Khon Kaen, via Lomsak; autobus (ebbene si’, ancora uno) da Khon Kaen a Nakhon Ratchasima (citta’ alla quale, giusto per semplificare le cose, si e’ pensato bene di appioppare anche un secondo nome: Khorat); sawngthaew (una sorta di camioncino) da Khorat a Pak Chong; altro tuk-tuk, sino all’ingresso del parco; gran finale con autostop dall’ingresso del parco al centro visitatori (ci son quindici kilometri; non so voi come ve la caviate a passeggiate: io ho fatto
autostop).
Che dite, il rischio di fare un po’ di confusione, qua o la’, ci puo’ essere, non trovate?
Oppure – passiamo a qualche esercizio piu’ complesso – in Laos puo’ capitare di dover viaggiare da Paksan a Pakse per raggiungere Paksong. O, ancora – sempre in Laos – di andare da Don Kho a Don Khon per visitare Don Khong (questa e’ davvero per solutori piu’ che abili)! Dimenticate o aggiungete una consonante di troppo e siete fregati (“fregati”, Oddio; tutto e’ relativo: semplicemente, vi ritroverete in un posto diverso da quello a cui avevate pensato. Potrebbe anche rivelarsi una cosa buona).
La mattina, prima di partire, ripasso velocemente la lezione: “Dunque, sei a Pakse e devi andare a Paksong, semplice. Paksan toglitela dalla mente per ora, quella e’ a nord. Don Kho? No, non
c’e’ tempo. Vai a Don Khon. Ma l’albergo e’ meglio cercarlo a Don Khong”.
Ora qualcuno, forse, pensera’: “Ma una mappa, un libro, una guida, un mappamondo luminoso, qualcosa... ce l’avrai pure con te, no...?”.
Certo che si’. Ma le localita’, dopo averne fissato intensamente i nomi sulla mappa per un buon lasso di tempo, sara’ bene anche ricordarsele. In primis, perche’ a camminare con la cartina sempre davanti agli occhi si rischia di sbattere delle gran facciate contro i, sia pur rari, pali della luce. Soprattutto, perche’ i bus, camioncini, eccetera, spesso non stanno ad aspettarvi. Passano,
rallentano un poco, qualcuno grida il nome della destinazione e, se e’ quella giusta, occorre dimostrare un certa prontezza, raccogliere lo zaino, saltare a bordo.
Comunque, non voglio farla, come si suol dire, piu’ grande di quel che e’: con un po’ di allenamento e meditazione zen ce la si puo’ cavare egregiamente.
Sino a quando non arriva il fatidico momento del “Where are you going?”; quello che vi frega, perche’ colpisce quando non ve l’aspettate.
Il bus - riprendiamo dall’inizio - state dormendo. A svegliarvi e’ il “bigliettaio”. Ha le sue ragioni, la domanda e’ lecita, qualche bath o kip occorrera’ pur versarlo per il passaggio. “Where are you going?”.
In realta’, la maggior parte delle volte la domanda e’ in thai o lao; l’inglese, appena si esce dalle tratte “turistiche”, lo parlano davvero in pochi. Spesso, il bigliettaio, neppure parla, si limita a fare un gesto, come a dire “orbene, dove ti scarichiamo?”.
Mi stropiccio gli occhi. Un momento. Anzitutto... dove sono? Sino a poco fa, ero li’, accanto al pozzo, i telefonini. “Where are you going?”; la domanda ha un che di filosofico, non trovate? Where am I going? E, soprattutto, perche’? Vorrei rispondergli “ E tu, fratello, in fondo, lo sai davvero dove stai andando?”. Ma, no, decisamente non sembra essere una buona idea, avra’ ancora una trentina di viaggiatori da cui riscuotere ed intavolare una conversazione sulla metafisica in thai potrebbe presentare delle difficolta’.
Sbadiglio e farfuglio qualcosa (poniamo si trattasse di andare a Pak Chong): “Ahm... going to... to... Pek Chang?!”.
Mi fissa, inerte, silente (inarcasse almeno un sopracciglio, una reazione). E qui, diciamolo, anche lui ci mette del suo. Se facessi il bigliettaio e – ad esempio – a Moncalieri un thailandese mi dicesse “io... andare... Tortino”, accidenti, uno sforzo lo farei bene per capire che ‘sto brav’uomo e’ a “Torino” che vuole arrivare!
Ma il giovanotto, qui, non e’ altrettanto intuitivo.
“Wait”. La mappa, aspetta solo che abbia tra le mani la mappa – ne ho una grande, colorata – e te lo faccio vedere io dove voglio andare, voi ed il vostro maledetto vizio di affibbiare nomi
incomprensibili alle cose!
Quando gia’ ho svuotato mezzo zainetto (la mappa, era qui), tira fuori un’esclamazione: “Ahhh... Pak Chong... you go Pak Chong”.
Pak Chong, si’, e’ quello, portamici.
E se non fosse quello, portamici lo stesso.

P.S.: Amici, ho scherzato. In realta’, quanto ad orientamento e toponomastica me la cavo alla grande, davvero. Non ho mai sbagliato il nome di un paese (magari giusto qualche frazione, qua e la’).
Pero’, a rifletterci, la domanda, forse, sarebbe bene porsela.
Sempre, comunque, ogni mattina, davanti allo specchio, anche se non si ha in programma di prendere il bus per Pak Chong.
“Dove sto andando?”.