"VIAGGIATORE, NON C'E' UN SENTIERO.
I SENTIERI SI FANNO CAMMINANDO".

Antonio Machado, Poesias Completas

domenica 27 giugno 2010

WHERE ARE YOU GOING?



Dunque, riprendo da dove mi ero fermato: l’autobus, il risveglio, dal sogno.
E’ questo il momento in cui siete vulnerabili. Il momento in cui il “Where are you going?” puo’ cogliervi, davvero, impreparati.
Ora vi spiego cosa intendo.
Se viaggiate – in particolare se viaggiate da soli – e vi muovete spesso da una localita’ all’altra, vi troverete a dover mandare a mente un sacco di nomi “esotici”.
Qualche esempio.
Quando, in Thailandia, ho deciso di raggiungere da Sukhothai il parco di Khao Yai, ho dovuto: prendere un tuk-tuk (il famigerato “ape” riadattato a trasporto persone) da Old Sukhothai a New Sukhothai; poi un autobus da New Sukhothai a Phitsanulok; altro bus da Phitsanulok a
Khon Kaen, via Lomsak; autobus (ebbene si’, ancora uno) da Khon Kaen a Nakhon Ratchasima (citta’ alla quale, giusto per semplificare le cose, si e’ pensato bene di appioppare anche un secondo nome: Khorat); sawngthaew (una sorta di camioncino) da Khorat a Pak Chong; altro tuk-tuk, sino all’ingresso del parco; gran finale con autostop dall’ingresso del parco al centro visitatori (ci son quindici kilometri; non so voi come ve la caviate a passeggiate: io ho fatto
autostop).
Che dite, il rischio di fare un po’ di confusione, qua o la’, ci puo’ essere, non trovate?
Oppure – passiamo a qualche esercizio piu’ complesso – in Laos puo’ capitare di dover viaggiare da Paksan a Pakse per raggiungere Paksong. O, ancora – sempre in Laos – di andare da Don Kho a Don Khon per visitare Don Khong (questa e’ davvero per solutori piu’ che abili)! Dimenticate o aggiungete una consonante di troppo e siete fregati (“fregati”, Oddio; tutto e’ relativo: semplicemente, vi ritroverete in un posto diverso da quello a cui avevate pensato. Potrebbe anche rivelarsi una cosa buona).
La mattina, prima di partire, ripasso velocemente la lezione: “Dunque, sei a Pakse e devi andare a Paksong, semplice. Paksan toglitela dalla mente per ora, quella e’ a nord. Don Kho? No, non
c’e’ tempo. Vai a Don Khon. Ma l’albergo e’ meglio cercarlo a Don Khong”.
Ora qualcuno, forse, pensera’: “Ma una mappa, un libro, una guida, un mappamondo luminoso, qualcosa... ce l’avrai pure con te, no...?”.
Certo che si’. Ma le localita’, dopo averne fissato intensamente i nomi sulla mappa per un buon lasso di tempo, sara’ bene anche ricordarsele. In primis, perche’ a camminare con la cartina sempre davanti agli occhi si rischia di sbattere delle gran facciate contro i, sia pur rari, pali della luce. Soprattutto, perche’ i bus, camioncini, eccetera, spesso non stanno ad aspettarvi. Passano,
rallentano un poco, qualcuno grida il nome della destinazione e, se e’ quella giusta, occorre dimostrare un certa prontezza, raccogliere lo zaino, saltare a bordo.
Comunque, non voglio farla, come si suol dire, piu’ grande di quel che e’: con un po’ di allenamento e meditazione zen ce la si puo’ cavare egregiamente.
Sino a quando non arriva il fatidico momento del “Where are you going?”; quello che vi frega, perche’ colpisce quando non ve l’aspettate.
Il bus - riprendiamo dall’inizio - state dormendo. A svegliarvi e’ il “bigliettaio”. Ha le sue ragioni, la domanda e’ lecita, qualche bath o kip occorrera’ pur versarlo per il passaggio. “Where are you going?”.
In realta’, la maggior parte delle volte la domanda e’ in thai o lao; l’inglese, appena si esce dalle tratte “turistiche”, lo parlano davvero in pochi. Spesso, il bigliettaio, neppure parla, si limita a fare un gesto, come a dire “orbene, dove ti scarichiamo?”.
Mi stropiccio gli occhi. Un momento. Anzitutto... dove sono? Sino a poco fa, ero li’, accanto al pozzo, i telefonini. “Where are you going?”; la domanda ha un che di filosofico, non trovate? Where am I going? E, soprattutto, perche’? Vorrei rispondergli “ E tu, fratello, in fondo, lo sai davvero dove stai andando?”. Ma, no, decisamente non sembra essere una buona idea, avra’ ancora una trentina di viaggiatori da cui riscuotere ed intavolare una conversazione sulla metafisica in thai potrebbe presentare delle difficolta’.
Sbadiglio e farfuglio qualcosa (poniamo si trattasse di andare a Pak Chong): “Ahm... going to... to... Pek Chang?!”.
Mi fissa, inerte, silente (inarcasse almeno un sopracciglio, una reazione). E qui, diciamolo, anche lui ci mette del suo. Se facessi il bigliettaio e – ad esempio – a Moncalieri un thailandese mi dicesse “io... andare... Tortino”, accidenti, uno sforzo lo farei bene per capire che ‘sto brav’uomo e’ a “Torino” che vuole arrivare!
Ma il giovanotto, qui, non e’ altrettanto intuitivo.
“Wait”. La mappa, aspetta solo che abbia tra le mani la mappa – ne ho una grande, colorata – e te lo faccio vedere io dove voglio andare, voi ed il vostro maledetto vizio di affibbiare nomi
incomprensibili alle cose!
Quando gia’ ho svuotato mezzo zainetto (la mappa, era qui), tira fuori un’esclamazione: “Ahhh... Pak Chong... you go Pak Chong”.
Pak Chong, si’, e’ quello, portamici.
E se non fosse quello, portamici lo stesso.

P.S.: Amici, ho scherzato. In realta’, quanto ad orientamento e toponomastica me la cavo alla grande, davvero. Non ho mai sbagliato il nome di un paese (magari giusto qualche frazione, qua e la’).
Pero’, a rifletterci, la domanda, forse, sarebbe bene porsela.
Sempre, comunque, ogni mattina, davanti allo specchio, anche se non si ha in programma di prendere il bus per Pak Chong.
“Dove sto andando?”.

  

sabato 12 giugno 2010

L'AMORE AI TEMPI DEL TELEFONINO

Mi rivolgo anzitutto a te, autista del bus che mi ha condotto da Yangon a Ngwe Saung. Il fatto che avessi deciso di percorrere il tragitto notte tempo non ti ha indotto qualche riflessione? Nulla? Permettimi di fornirti un indizio: e se avessi pensato che magari su un bus «notturno» sarebbe stato possibile, non dico dormire, ma, anche solo brevemente, sonnecchiare?
Ma dormire – o sonnecchiare o, insomma, concedere un poco di riposo al cervello – e’, davvero, impossibile.
Non si tratta dei sedili scomodi, dell’aria condizionata o della strada sconnessa. I responsabili sono soltanto loro: il Televisore ed il suo compagno di malefatte, il Lettore di Dvd! Benefit riservati agli autobus VIP (per lunghe percorrenze), troneggiano come antichi idoli sull’altare, in genere collocato in posizione elevata, giusto alle spalle del conducente.
Che poi, per la verita’, Televisore e Lettore Dvd sono solo dei mezzi; potrebbero anche essere usati coscienziosamente (sebbene cio’ avvenga di rado anche delle nostre parti): che so, potrebbero infilarci qualche bel documentario naturalistico, con un sottofondo musicale delicato, suadente, che ti culli e ti accompagni lieve verso il meritato riposo.
Ma cosi’ non e’. Insomma, il vero pericolo non e’ costituito dal Lettore in se’ quanto dal cibo con cui questi lestofanti foraggiano il Lettore medesimo. Ebbene si’, loro: i devastanti dvd con i videoclip di musica pop birmana!
Permettetemi di fornirvi alcune nozioni al riguardo (immagino non stiate nella pelle). La musica pop birmana consta di due, fondamentali, categorie: i brani di musica tradizionale, riarrangiati in chiave rock, con chitarre elettriche, distorsioni e tutto il resto; le «cover» delle canzoni occidentali. In sostanza, non c’e’ brano pop rock anglosassone che non venga riproposto in birmano da qualche oscuro cantantucolo locale. Sapeste, mi verrebbe proprio da dire « Ho visto cose che voi umani… ». Ad esempio : Smells Like Teen Spirits reinterpretata da un gruppo di adolescenti birmani, con tanto di maglietta a righe. E poi piu’ giu’: Take It Easy in birmano (e badate che prendere la vita «facile» per un birmano non e’ cosa da poco). E poi ancora piu’ giu’: ricordate la penosa canzonetta di Paris Hilton (la nota plurimiliardaria decerebrata bionda) che passava in TV qualche anno fa; quella in cui lei si rotolova seminuda sulla spiaggia con la sensualita’ di un totano? Sento gia’ qualcuno esclamare «Cielo, anche quella?». Anche quella (per fortuna senza impanatura nella sabbia; qui un sia pur minimo senso del decoro e’ sopravvissuto).
E avanti cosi’, tutto il tragitto, tutta la notte, volume al massimo, gli emuli delle piu’ note rock star si scatenano nelle mie martoriate orecchie.
Ma non vi ho ancora detto tutto. «C’e’ dell’altro?». Si’, c’e’ dell’altro.
In Italia, quanto a spettacoli televisivi, “format”, “fiction“ ed in generale “show biz”, siamo esperti nell’ingurgitare la peggior immondizia che il mondo ci propini. Ma, occorre riconoscerlo, un devastante flagello, di origine asiatica, capillarmente diffusosi sul finire degli anni ’80, siamo riusciti (quasi del tutto) a debellarlo. L’Aviaria ? La Suina ? No, peggio. Mi riferisco proprio a cio’ a cui state pensando : il Karaoke!
Nel sud est asiatico, invece, il Karaoke vive, piu’ forte che mai, e miete ancora vittime innocenti, ogni giorno. Cosi’, tutte le suddette canzonette vengono proposte con tanto di «sottotitoli», che mutano di colore in sincrono, per consentire allo spettatore di sillabarne inebetito i testi, in genere pregni di significato ed elevato contenuto artistico.
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Quanto avete appena letto e’ stato scritto prima che approdassi in Thailandia. Ebbene, le malefatte musicali birmane impallidiscono di fronte alla meglio strutturata, organizzata e solida “macchina da guerra” del Karaoke thailandese. Sugli autobus thailandesi sono gettonatissimi i dvd musicali della “Grammy Karaoke” (il cui fondatore meriterebbe di essere perseguito dalla Corte Penale Internazionale). In sostanza, si tratta di raccolte di videoclip musicali, con i diabolici sottotitoli che si illuminano in sequenza. I thailandesi pero’ prediligono la musica locale, di cover non se ne vedono molte. Per lo piu’ si tratta di lacrimevoli cantilene amorose, buone per accompagnare i preparativi a un suicidio. Ma qui il genere melodico – romantico spopola.
Orbene, tutte le canzoni narrano una storia: e quando dico «una», intendo proprio una, nel senso che la vicenda, con poche, eccezionali, varianti, e’ sempre, rigorosamente, la medesima. Che ora cerchero’ di riproporvi in sintesi (del resto non mi par giusto che sia solo io a soffrire).
Dunque, anzitutto la vicenda coinvolge sempre non meno di sei soggetti: Lei, Lui, l’Altra/o, il Telefonino di Lei, il Telefonino di Lui, il Telefonino dell’Altra/o. In realta’, pero’, i veri protagonisti sono tre: i telefonini! Narrazioni di particolare complessita’ possono comportare anche la presenza di qualche telefonino in piu’; ma per il momento limitiamoci al modello base.
Lui e Lei sono colleghi (in genere lavorano nella stessa fabbrica o, nella versione per lo spettatore borghese, nello stesso ufficio). Lui e’ segretamente invaghito di Lei ed ogni volta che la vede passare per il corridoio o la incontra alla macchinetta del caffe’ (the) tira su dei gran sospiri di patimento amoroso (e gia’ qui la storia e’ poco credibile, perche’ in genere tra colleghi ci si vorrebbe strangolare, altro che sospiri; ma passiamogliela per buona, andiamo avanti). Lei – che per inciso e’ bellissima – invece non se lo fila proprio. Bene, dico io, datti una mossa giovanotto, invitala a mangiare un piatto di quei vostri accidenti di noodle o, insomma, una di quelle vostre diavolerie speziate; un po’ di iniziativa perbacco. E lui, invece, che fa? La fotografa di nascosto con il telefonino cosi’ da poter proseguire con i sospiri anche in sua assenza, rimirandone l’immagine in pixel sul monitor del diabolico marchingegno.
La fase telefonico–contemplativa dura giornate intere. Sino a quando – e di questo occorre dargliene atto – il giovanotto un bel di’ si risolve finalmente ad agire. La attende all’uscita della fabbrica, aspetta pazientemente che lei abbia terminato di ricevere, scrivere ed inviare un centinaio di messaggi dal telefonino e, quando il momento appare propizio dato che la preda sta temporaneamente riposando le falangi esauste, le si approssima risoluto.
Ma proprio qui accade la tragedia. Lei. C’ha il ragazzo! E’ venuto a prenderla. Insomma, e’ entrato in scena l’Altro. Gia’, Lei e l’Altro se ne vanno mano nella mano (il che esclude possa trattarsi di un cugino ; c’ha proprio il ragazzo, accidenti!) e Lui – ed il Telefonino di Lui – ricadono nella piu’ cupa disperazione (e dai di sospiri).
Ma, attenzione, anche le coppie apparentemente piu’ serene talvolta attraversano periodi di profonda crisi. Ed e’ proprio cio’ che sta accadendo alla coppia Lei – l’Altro (il che apre inaspettatamente degli spiragli per Lui; ragazzi, la storia si fa avvincente, non trovate?). Insomma, l’Altro pare non essere piu’ innamorato di Lei come un tempo. Qualche esempio: all’inizio della loro relazione, se lungo il cammino s’imbattevano in una pozzanghera, lui (che poi sarebbe l’Altro; oh mamma, riuscite a seguirmi vero?) tosto recuperava dei panni, una passerella, insomma qualcosa che le consentisse di attraversare l’ostacolo senza timore di inzaccherarsi le scarpine. Ora, invece, attende a braccia conserte, guardandola con un espressione che dice «Su, sveglia, salta». Oppure, se un tempo Lei si procurava un sia pur microscopico tagliettino al dito affettando le patate, lui subito interveniva con la cassetta del pronto soccorso e la bendava amorevolmente. Ora boffonchia tra se’ «la solita scema» o qualcosa del genere e le dice «i cerotti sono nell’ultimo cassetto a destra». in definitiva, non per gufare, ma non me la sentirei di escludere che questo bellimbusto c’abbia pure l’amante. Lei e’ disperata, piange di continuo come una fontana e… ne parla. Con lui (che poi, ribadisco, sarebbe l’Altro)? No, con il Telefonino naturalmente! Insomma, passa ore intere a riguardarsi le diecimila fotografie che li ritraggono insieme ed a rileggersi i diecimila messaggi che si sono scambiati dall’inizio della loro relazione, per comunicarsi notizie essenziali del tipo: «Sei sveglia?» - «Si’, sono sveglia, e tu?» - «Si’… e tu?».
Lo sconforto raggiunge l’apice quando, mentre sono insieme, lui (l’Altro) riceve misteriosi messaggi sul (proprio) telefonino ed, alla domanda di Lei «chi ti ha scritto?», fornisce risposte palesemente evasive e incerte, come «Chi?... Ah, no, nulla, sono i messaggini promozionali della Fitness First… che noia questi”.
In definitiva, un vero strazio, piangono tutti: piange Lui, piange Lei. E pure l’Altro non se la passa poi tanto bene, perche’ e’ chiaro che a vivere con un’inetta che non e’ in grado di saltare una pozzanghera o di affettare quattro patate senza scorticarsi le dita, c’e’ da stare poco allegri.
Bene, la soluzione a me – ed immagino anche a voi – parrebbe semplice. Lei e l’Altro si «lasciano». Lui e Lei si «mettono insieme» (che espressioni orrende a ben pensarci ; ma si suol dire cosi’, dunque…). Gia’, ma in questo modo l’odiosa canzonetta terminerebbe in dieci secondi e la Grammy Karaoke avrebbe chiuso i battenti da tempo. Va bene, quindi, ci sto, riconosco le pur legittime esigenze commerciali del mefistofelico imprenditore. Fatela pur durare, ma, quanto meno, vi prego, fate anche in modo che ci sia un lieto fine! No, niente lieto fine. Raggiunto il momento di massima agonia, la canzone, puntualmente, finisce. Cosi’, nello struggimento collettivo.
E cosi’, sempre cosi’, ogni autobus, ogni kilometro percorso, ogni stramaledetto dvd della Grammy Karaoke, ogni canzone e canzonetta.
Devo fare qualcosa.
Devo, lo avverto come un imperativo etico, non posso permettere che si vada avanti con tutta questa sofferenza.
Un giorno, a bordo dell’autobus diretto a Lomsak, sopraffatto dalla stanchezza, dal caldo e dalla voce stridula dell’ennesima adolescente canterina, le forze, d’improvviso, mi vengono a mancare. Mi addormento. Mi addormento e sogno. E nel sogno abbandono il mio posto a sedere, fluttuando, leggero, mi dirigo verso l’altare televisivo e, senza che gli altri spettatori viaggianti abbiano di che ridire, oltrepasso lo schermo luminoso; insomma, d’un tratto mi ritrovo, cosi’, anima e corpo, nell’assurdo videoclip. Bene, ora che ci sono, dopo essermi un po’ sgranchito, mi dirigo, anzitutto, dalla ragazzetta vociante. Le strappo il microfono di mano e le intimo, con tono che non ammette repliche «Ora basta, davvero, taci!». Lei, intimorita, prontamente si zittisce (dimenticavo: nel sogno parlo fluentemente thailandese; i sogni son belli per questo, no?). In ogni caso, giusto per non correre rischi, la imbavaglio con del buon nastro isolante, di quelli larghi e resistenti (tranquilli, respira). Poi raggiungo il tizio che si occupa di far passare sul video gli ipnotici sottotitoli. Anche con lui sono perentorio: «Togli la mano dalla manovella e smettila subito di mandare in onda quegli assurdi, incomprensibili ideogrammi, intesi ?». Docile, obbedisce.
A questo punto, guadagnata un poco di quiete acustica e visiva, posso dedicarmi con calma ai ragazzi (mi riferisco a Lei, Lui e l’Altro). Faccio in modo che si ritrovino tutti e tre nello stesso luogo, alla stessa ora. Quindi, grazie ad un ingegnoso stratagemma, mi faccio consegnare i preziosi telefonini. Quando, sgomenti, intuiscono quel che mi accingo a fare, e’ gia’ troppo tardi. I telefonini. Perduti, definitivamente. Li ho scagliati in un profondo pozzo. Plof (per tre volte).
Vorrebbero saltarmi addosso, percuotermi, uccidermi, ma non ne hanno le forze, tanto sono affranti e piegati su loro stessi dal dolore della perdita. Prima che corrano da MBK a procurarsene di nuovi, parlo loro:
«Ragazzi, ragazzi, ma non capite? L’ho fatto per voi, vi ho liberati! I telefonini non vi vogliono bene, i telefonini sono strumenti nelle mani, non vostre, ma delle Compagnie Telefoniche, per controllarvi, sopraffarvi. Pretendono di insegnarvi come amare. Il fatto che li chiamino ‘cellulari’, proprio come le camionette della polizia che conducono i detenuti in carcere, non vi fa riflettere? Vogliono imprigionarvi!».
«Ma voi siete piu’ forti di loro, non avete bisogno di loro. Non avete bisogno di consumarvi i polpastrelli a furia di pigiar tasti per comunicare un ‘messaggio’. Potete parlarvi. Non e’ meraviglioso? Ora potete parlare. Non avete piu’ bisogno di guardarvi in pixel. Ora siete qui, persone, reali».
«Ascoltatemi, ho ancora molti kilometri da percorrere, molti autobus da prendere e, davvero, non ne posso piu’, non posso piu’ vedervi piangere; cosi’ giovani. Ora siete tutti e tre qui, ho ordinato per voi noodles ed insalata di papaya, per favore, sedetevi, mangiate e parlatevi; solo alla morte non c’e’ rimedio. Io devo andare, khawp khun khrap, parlatevi eh, ciao, laa kawn, ciao!”.
Durante tutto il monologo mi hanno fissato ammutoliti. Probabilmente non e’ servito a nulla; probabilmente ora salteranno sul primo tuk-tuk e andranno da MBK a comprarsi dei telefonini nuovi e piu’ micidiali di quelli che ho appena soppresso. Ma io sono in regola con la coscienza, ho fatto tutto cio’ che umanamente mi si poteva chiedere di fare.
Prima ancora che varchi il monitor per tornare al mio posto, mi ritrovo sveglio, fuori dal sogno, nel mondo reale. Quante ore o minuti sono trascorsi? Quanto ancora manca alla destinazione?
Prendo il telefonino per guardar l’ora e constato, con gioia, di avere in memoria due messaggi nuovi da leggere.



P.S.: in realta’, tutto cio’ che avete appena letto e’ stato dettato da un unico, preciso, sentimento: l’invidia. Perche’ i sottotitoli, gli incantevoli, luminescenti, colorati, divertenti, sottotitoli del Karaoke… sono in thailandese! Tutti li capiscono ed io no (singhiozzi)! Tutti possono cantare ed io no (lacrime)! Una sola cosa vorrei, una sola… poter cantare, cantare (pianto a dirotto)…

martedì 8 giugno 2010

FRATELLO, DOVE SEI?

Un amico mi ha rivolto una domanda piu’ che ragionevole: “Ma quanto stai in
Birmania? Non ti scade il visto? I Generali di cui vai tanto parlando non ti
cacciano a pedate?”.
Giusta osservazione.
In effetti, il tempo – tra gavettoni, passeggiate nell’oscurita’, consigli
gastronomici, monaci tifosi e molte molte altre cose – e’ trascorso; il visto
e’ scaduto ed in Birmania non ci sono piu’ da parecchi giorni. Esattamente dal
5 maggio, data del mio arrivo a Bangkok.
Dunque (ecco la risposta), non c’e’ un’esatta corrispondenza “temporale” tra
quel che racconto e cio’ che vivo giorno per giorno. In sostanza, buona parte
delle cose che vi ho detto della Birmania sono state scritte quando gia’ mi
trovavo a girovagare per la Thailandia.
E, nel frattempo, altri giorni e notti sono trascorsi, veloci.
Ed un altro visto e‘ scaduto.
Cosi‘, il 3 giugno sono di nuovo partito. Ho preso un autobus da Ubon
Ratchathani ed ho lasciato alle mie spalle anche la Thailandia. In questo
momento vi sto scrivendo da una regione del Laos meridionale, l’altopiano del
Bolaven. La zona e’ molto bella e gradevolmente fresca ma non propriamente nell’
hit parade dello sviluppo turistico (grazie a Dio). Insomma, uno di quei luoghi
in cui puo’ ancora capitare che la gente ti guardi con l’espressione di chi
pensa “e questo da dove salta fuori?” e dove muoversi da un paese all’altro
puo’ voler dire percorrere la strada seduti su una montagna di sacchi di riso
nel retro di un songthaew (camioncino).
Dunque, tornando a quanto vi dicevo sopra, ora che sono in Laos comincero’,
probabilmente, a raccontarvi qualcosa della Thailandia. O, forse, mischiero’ un
po’ le carte: le immagini, i dialoghi, le impressioni, i luoghi. Senza un
preciso ordine cronologico.
Nel viaggio, la memoria dei viaggi passati, l’attesa per i viaggi futuri.

P.S.: a Paksong, il centro piu’ grande del Bolaven, internet non e’ ancora
arrivato. Quel che avete appena letto e’ stato scritto sul retro di una mappa
gentilmente donatami da Mr Coffee (personaggio di cui vi diro’ prossimamente)
e, poi, ritrascritto sul blog in quel di Pakse.

martedì 1 giugno 2010

"ALCUNI PICCOLI CURIOSI FATTI SPARSI". EPISODIO DUE: Quello che non c'è .

Parlo con l'impiegato di un hotel di Yangon ed il discorso va a finire sulla maniera migliore per raggiungere un determinato luogo in citta'. Appena ha terminato di enumerare tutti i mezzi di locomozione concepiti dal genere umano, penso bene di tirar fuori, tra il serio e il faceto, "Oppure ci si potrebbe andare in bicicletta!".
Lui: "In bicicletta? Ah no, in bicicletta non è possibile".
"E perchè? Il percorso mi sembra piuttosto breve".
"Sì, è breve. Ma a Yangon è vietato andare in bicicletta".
"Vietato? Questa è bella... e perchè?".
"Perchè è pericoloso".
Amici, per totale onestà e completezza di cronaca debbo confessarvi che non mi sono personalmente recato presso il Municipio di Yangon a sincerarmi della veridicità della notizia.
Ma un fatto è certo: di biciclette non se ne vedono.
Se, dunque, quanto riferitomi fosse vero, non si potrebbe fare a meno di riconoscere del genio nell'iniziativa della saggia Amministrazione di Yangon. In sostanza, è un pò come dire: dato che le automobili sono pericolose per i pedoni... aboliamo i pedoni!
Altro che "piste ciclabili" e presuntuoselli ecologisti bicimuniti che occupano tutta la carreggiata. Ciclisti e affini, dovete stare a casa, siete pericolosi!
Fuor di battuta, più inquietante la circostanza che, riflettendoci, ci siano anche altre persone e situazioni e cose che non si vedono in giro.
Per esempio, non ci sono mendicanti. Forse sì, qualcuno, ma è davvero rarissimo incontrarne. Si potrebbe dire: è una cosa buona. Il fatto è che da queste parti la miseria certo non manca . Dunque, si tratta di un'assenza che un poco fa pensare, non trovate?
Medesima considerazione per gli invalidi, i portatori di handicap. E non credo ci sia di che ringraziare il sistema sanitario birmano.
Dove sono?
Il timore è che il criterio adottato per i ciclisti venga esteso anche ad altre "categorie" di persone.