"VIAGGIATORE, NON C'E' UN SENTIERO.
I SENTIERI SI FANNO CAMMINANDO".

Antonio Machado, Poesias Completas

martedì 31 agosto 2010

PERFECT DAY IN THE MIDDLE OF NOWHERE. PARTE PRIMA.

Non c’e’ regola che non subisca eccezione, si sa. Dunque - malgrado proprio
nell’ultimo post avessi proclamato che in genere non ritengo interessante per il “lettore” descrivere i luoghi che visito o come trascorro il tempo – oggi vi parlero’di una giornata di viaggio. Semplicemente, ho pensato di raccontarvela perche’credo rappresenti davvero bene quello che intendo come autentico, profondo, spirito del "Viaggio".
Giusto per collocare gli avvenimenti nel tempo, la giornata risale a circa tre mesi fa, quando ero appena giunto nel Laos meridionale.
Dunque, a Pakse una mattina me ne vado alla stazione intenzionato a prendere un bus locale per Si Phan Don (le "quattromila isole sul Mekong"; chi fosse interessato, potra' dare un'occhiata su un motore di ricerca). Ma il bus, mi dicono, non c'e'.
“Scusi, non e’ questa la stazione dei bus?”.
“Si’. Ma di bus per Si Phan Don ce n’e’ solo uno al giorno, in prima mattinata. Partito”.
“Ahi. Ed io adesso a Si Phan Don come ci arrivo?”.
“Con uno di quelli”. E mi indica una fila di sawngthaew in attesa (come ho detto altre volte, si tratta di camioncini “riadattati” a trasporto persone, su cui in genere ci si comprime tra sacchi di riso, mercanzie varie, animali da cortile ed altre anime penitenti che devono intraprendere il medesimo viaggio, seduti su non propriamente confortevoli panche di duro legno).
Gesu’. “Quanto ci mette il sawngthaew ad arrivare a Si Phan Don?”.
“Quattro ore”. Il che, siccome il Laos non e’ proprio la Svizzera, sta a voler dire almeno sei ore.
Schiena (e fondoschiena) prontamente si ribellano: “Noi su quel coso oggi non ci saliamo!”.
Ed ora che si fa? Domando: “Dove e’ diretto il prossimo bus in partenza?”.
“A Paksong”.
“Bene, un biglietto per Paksong”.
Dopo circa un’ora e mezza, l’autista mi fa capire che ci siamo arrivati, a Paksong, e mi scarica in mezzo ad una strada lunga e polverosa, su cui si affaccia qualche raro edificio.
Ad un tale che se ne sta li’ seduto su una panchina e mi dice “hello” domando "Da che parte devo andare per il centro (della citta’)?”.
Risponde: “Questo e’ il centro”.
Ah. Immagino che Paksong non figuri nella classifica delle citta’ piu’ animate della terra.
“E un posto dove dormire, un albergo, dove lo trovo?”.
“Ce l’ho io l'albergo”.
Questo tipo non sara’ di molte parole ma comincia a piacermi.
“Bene. E nel tuo albergo quanto costa una stanza?”.
“Cinque dollari”.
“Mi sembra ragionevole. Andiamo, mostrami questo Sheraton.
Beninteso, Paksong non e’ il posto che consiglierei a chi voglia far shopping sfrenato o darsi alla vita notturna, ma tutta l’area circostante – l’Altopiano del Bolaven – e’ davvero bellissima. Vaste distese di foresta primaria, cascate che precipitano spumeggianti in profondissime vallate ed un clima piacevolemente fresco, grazie all’altitudine.
Dopo un paio di giorni, visto che la zona tutt’intorno l’ho visitata, mi viene il desiderio di andare piu’in la’, allontanarmi ancora dall'itinerario a cui avevo originariamente pensato. Voglio raggiungere "Nam Tok Katamtok".
La guida "Lonely Planet" (al di la' di cio' che possano dire quelli che vogliono sempre differenziarsi, tuttora la miglior guida a disposizione del viaggiatore indipendente) cosi' descrive Nam Tok Katamtok: "una sbalorditiva cascata con un salto di 120 metri situata in una giungla fitta e remota" aggiungendo che si tratta della "cascata piu' spettacolare del Laos, anche perche' per trovarla bisogna essere quasi degli esploratori". La cascata si trova tra le "aspre e remote province di Sekong e Attapeu, che costituiscono il selvaggio est del Laos".
Cosi', domando al mio buon amico albergatore (dal quale alla fine ho soggiornato per quattro giorni): "Come ci arrivo a Nam Tok Katamtok, c'e' un bus?".
"No. Per la verita' non c'e' neppure la strada".
"Ma ci sara' pure un modo. Il tizio che l'ha scritto sulla Lonely, a meno che non sia un gran buontempone, ci dovra' essere arrivato".
"Forse puoi trovare qualcuno che ti ci porti con un fuoristrada. Ma non so, e' difficile. In ogni caso, considerato che tra Paksong e Nam Tok Katamtok ci sono
un centinaio di kilometri, il costo per l'autista ed il carburante sarebbe molto
elevato. Oppure ti posso procurare una moto. Pero' ti avverto: fino a Sekong la
strada e' asfaltata ed in discrete condizioni; poi c'e' solo uno sterrato che attraversa la foresta, percorso di rado. Se, che so, fori o rompi, te ne torni a piedi".
"Grazie per la franchezza. Niente moto. Pazienza, non vedro' Nam Tok Katamtok.
Quella stessa sera pero' l'albergatore bussa alla mia porta. "Vuoi ancora andare a Nam Tok Katamtok?" mi sussurra con voce da cospiratore.
"Si', pero' senza spendere quanto ho previsto come budget per tutta la permanenza in Laos e senza il rischio di farmela a piedi", sussurro a mia volta (chissa' poi perche' stiamo sussurrando).
"Allora vai a parlare con Mr Coffee".
"E chi e' Mr Coffee?".
"E' un olandese che ha sposato una laotiana e gestisce un piccolo bar qui a Paksong. Vacci ora, a piedi ci arrivi in una ventina di minuti, portati una torcia. Il bar sara' chiuso, bussa".
"Si' ma da Mr Coffee che ci vado a fare? Il caffe' l'ho gia' preso, grazie".
"Mr Coffee ha un fuoristrada ed ho saputo che domattina accompagnera' due scienziati (o qualcosa del genere) dalle parti di Nam Tok Katamtok. Ci andate tutti insieme e dividete la spesa. Semplice".
"Capito. Ottimo. Ci vado subito".
Quando sto per uscire mi richiama: "Senti: Mr Coffee... e' un tipo un po' strano sai. Ma e' una bravissima persona".
Rido: "Va bene. Anch'io sono un tipo un po' strano ma sono una bravissima persona".
Mr Coffee lo incontro, quella sera. E' alto alto e secco secco. E' l'uomo piu' rilassato della terra. Fuma come un turco e trascorre buona parte del tempo sciolto su un'amaca appesa davanti a casa. Ogni tanto si alza e mette la moka (cielo, una moka!) sul fuoco. Permettetemi qualche rapida notazione biografica: Roger (questo e' il suo vero nome) viveva e lavorava ad Amsterdam. Casa, ufficio, casa. In ufficio vedeva le facce lunghe dei colleghi, a casa la faccia lunga della moglie. Un giorno, neppure lui sa come e perche', gli viene l'insano pensiero di lasciar la moglie a casa e andarsene a trascorrere le ferie, da solo, in Cina. Al ritorno, riprende la sua vita, casa e ufficio. Ma dura poco. Divorzia, abbandona il lavoro e con i risparmi che ha raccimolato parte per l'Asia. Cammina per due anni e mezzo e poi, un giorno, sente che e' venuto il momento di fermarsi. E, dato che quel giorno si trova proprio a Paksong, li' si ferma (elementare). Si risposa e diventa Mr Coffee. Questo e' quanto, in estrema sintesi.
Tornando a noi, Mr Coffee mi spiega la faccenda di Nam Tok Katamtok e degli scienziati. Si tratta di due ricercatori che studiano insetti; in particolare, scarafaggi. Uno e' svizzero, l'altro ceco (nel senso che e' nato a Praga, non nel senso di "non vedente"; anche perche' a studiar insetti la vista occorre avercela buona). Cosa induca un uomo a specializzarsi in studio degli scarafaggi mi e' oscuro, ma tant'e'. Orbene, questi due studia-blatte vogliono andare a starsene per un paio di settimane nelle foreste tra Sekong e Attapeu perche', in base alle loro abominevoli ricerche, sono convinti che da quelle parti vivano delle specie rare di scarafaggi. Nella foresta primaria pero' di alberghi e ristoranti non ce ne sono. Dunque, per dedicarsi in santa pace alle loro ricerche, i due hanno pensato di portare con se' un approvigionamento sufficiente di acqua potabile e viveri e di trovare ospitalita' in uno dei villaggi della zona. Non si tratta propriamente di sistemazioni confortevoli, tenuto conto che si vive in capanne, senza acqua (l'acqua ce la si procura al fiume piu' vicino) e senza corrente elettrica. Ma - immagino concorderete - la possibilita' di trascorrere del tempo in compagnia dei summenzionati graziosi animaletti varra' bene qualche sacrificio. I due hanno pero' sin da subito capito che che, per realizzare l'impresa, sarebbe stato necessario l'aiuto di qualcuno che conoscesse la zona e potesse accompagnarli e metterli in contatto con un capo villaggio. Insomma, l'uomo giusto per una missione tanto bizzarra. E l'uomo giusto, a Paksong, e' lui: Mr Coffee (perdonate la solennita', ma qui ci stava proprio bene!). Ecco, dunque, il piano: Mr Coffee possiede uno sgangherato fuoristrada con cui accompagnera' i due folli negli "aspri e remoti" territori di cui vi ho detto. Lungo il percorso la comitiva si fermera' a Nam Tok Katamtok (sempre che riesca a trovarla). Dopo di che, procurata una sistemazione per i due, Mr Coffee fara' ritorno a Paksong, quello stesso giorno, prevedibilmente a tarda sera.
Insomma, ci sono tutti i presupposti affinche' prenda parte anch'io alla spedizione: accompagnero' l'allegra combricola a Nam Tok Katamtok ed alla ricerca del villaggio e poi me ne tornero' a Paksong con Mr Coffee.
Cosi', ci si accorda per incontrarci la mattina successiva, alle sette, di fronte al bar.
(CONTINUA)

lunedì 16 agosto 2010

LETTERA AI MIEI AMICI E CONOSCENTI PER QUANDO FARO' RITORNO

Vi propongo un patto. Quando faro' ritorno, quando ci incontreremo, non fatemi, riguardo al viaggio, domande che vi sentite in obbligo di fare. Ed io non daro' risposte che mi sentirei in obbligo di dare.
Un viaggio di alcuni mesi “in solitaria” (in realta' l'espressione e' inappropriata, dato che lungo il cammino si incontrano e si condividono momenti con decine di persone) e', per chi la compie, un'esperienza straordinaria, profonda, indimenticabile. Ma il viaggiatore, al suo ritorno, non puo' pretendere che l'esperienza appaia altrettanto speciale agli occhi di chi non l'ha vissuta in prima persona.
Il progresso tecnologico ha consentito di relegare al passato una delle piu' sottili ed efferate torture concepite dal genere umano (tanto piu' crudele in quanto in genere perpetrata a danno di familiari ed amici): la proiezione delle diapositive dei propri viaggi. Chi del viaggio era stato protagonista diretto si compiaceva nel rivedere sul grande schermo bianco le immagini del luoghi visitati. Ma per l'incolpevole spettatore, a meno che non nutrisse un effettivo interesse per quei medesimi luoghi, la situazione si rivelava, in genere, d'una noia devastatante (fortunatamente, per la proiezione era necessaria l'oscurita; il che, se si aveva avuta la prontezza di conquistare un buon posto a sedere, possibilmente una poltrona, permetteva talvolta di farsi delle epocali dormite).
Bene, questo genere di sensazione io non voglio che abbia mai a verificarsi. Il mio viaggio, per me, per i miei occhi, la mia mente, il mio corpo e' un'esperienza cosi' grande e importante che non voglio, non posso pensare di trovarmi a parlarne, al mio ritorno, a persone annoiate, che mi domandano se il tempo sia stato bello e mi siano piaciuti i paesi che ho attraversato, cosi', per pura, necessaria, cortesia, senza un reale interesse a conoscere la risposta.
Per questo ho sin da subito immaginato, per la prima volta in vita mia, di fare ricorso ad un “blog”. Chi vuole, legge; chi non e' interessato, non legge. Elementare.
Per questo, in genere, non pubblico sul blog descrizioni delle localita' in cui mi trovo o “consigli per il turista” (una buona guida potra' fornirvi informazioni enormemente piu' utili e dettagliate di quelle che potrei darvi io), quanto, piuttosto, piccoli anedotti curiosi, sensazioni, frammenti di dialoghi o immagini.
Per questo, infine, penso che a partire dal giorno successivo al mio ritorno non faro' piu' parola di questo viaggio. Quel che voglio dire, lo trovate qui. Con un semplice click.
A meno che non siate davvero interessati a sapere.
A meno che non vogliate davvero conoscere, capire. Magari perche' progettate di visitare nel prossimo futuro questi stessi paesi. O magari solo perche' siete, genuinamente, curiosi.
In questo caso, non ci sara' per me piacere piu' grande che parlare, per quanto tempo vorrete, raccontare, ripercorrere con voi queste strade, queste citta', villaggi, queste montagne, questi campi di riso. Queste persone, questi sorrisi, queste strette di mano. Tutto cio' che a pensarci, anche ora, mentre scrivo, mi permette di dire che sono felice.

P.S.: Con riguardo a quanto ho detto sopra, ho pensato, per semplificare le cose, di redigere un'utile tabella riepilogativa delle piu' consuete domande “d'obbligo”, con le relative risposte.

1) Ti e' piaciuto fare questo viaggio?
Si'
2) Faceva caldo?
Si'
3) Pioveva spesso?
No
4) Ma non ti sei annoiato a viaggiare da solo?
No
5) Ma non hai avuto paure / preoccupazioni / timori a viaggiare da solo?
No
6) Ma non hai avuto problemi di salute dovuti all'alimentazione (corse al gabinetto, etc.)?
No
7) Come ti spostavi da un luogo all'altro, con i mezzi pubblici?
Si'
8) Hai conosciuto molte persone durante il viaggio?
Si'
10) Dove dormivi, in albergo? E' vero che hai dormito anche in tenda, bus, treno, barca e che spesso sei stato ospitato da persone del posto?
Si'
11) Hai mangiato tanto riso?
Si'
12) Hai mangiato tanti noodles?
Si'
13) Usavi i bastoncini per mangiare?
Si'
14) Hai bevuto tanto the?
Si'
15) E' vero che le donne asiatiche sono belle?
Si' e no
16) E' vero che in Birmania non si possono usare bancomat e carte di credito, i cellulari non funzionano e molti siti internet sono bloccati dal governo?
Si'
17) E' vero che in Vietnam Facebook e' bloccato dal governo ma tutti, a partire dai bambini di due anni, lo usano perche' conoscono il trucchetto per aggirare il blocco?
18) Hai letto molti libri?
No
19) E' vero che una pinta di Bia Hoi (birra alla spina) ad Hanoi costa solo 4.000 dong (pari a 15 centesimi di euro)?
Si'
20) Hai speso molto?
No

giovedì 12 agosto 2010

VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE TERZA.

CLEMENCE
Puo' capitare che la vita scorra per lungo tempo lentamente e poi, d'improvviso, si metta a correre.
Cosi', per molti anni, la vita di Clemence e' trascorsa lenta e regolare.
C'e' una cosa in cui Clemence ha sempre eccelso: stare con la testa china sui libri. Siccome genitori, fratello e zii di Clemence sono tutti stimati medici ed appartengono alla "buona borghesia" di Bruxelles, non e' difficile immaginare quali studi abbia intrapreso. Dopo una laurea in medicina conseguita, come si suol dire, brillantemente, Clemence ha superato anche un arduo esame internazionale a Parigi ed ha completato la specializzazione in "chirurgia oculistica".
Al termine della specializzazione, un eccellente posto di lavoro era gia' assicurato per Clemence (che, per inciso, lo meritava totalmente, date le capacita' dimostrate durante gli studi).
Dunque, tutto lascia immaginare che la vita di Clemence proseguira' ovattata e lineare; semplicemente, la mattina, anziche' percorrere la strada che conduce all'universita', si dirigera' verso la clinica.
In prossimita' dell'inizio di questa nuova attivita', Clemence decide di organizzare una festa, per celebrare con familiari ed amici il completamento dei corsi. Ci si trovera' tutti insieme e l'occasione le permettera' anche di rivedere persone che, standosene sempre chiusa in biblioteca o in un qualche reparto d'ospedale, ha, suo malgrado, perso un po' di vista. In particolare e' felice di poter trascorrere un po' di tempo con un cugino, al quale e' molto affezionata, e con la sua fidanzata. I due ragazzi (entrambi molto giovani, poco piu' che ventenni) sono andati a vivere insieme in un'altra citta' e progettano di sposarsi.
La serata trascorre molto piacevolmente ed al termine ci si abbraccia, ci si bacia e ci si promette di rivedersi quanto prima.
Esattamente sette giorni dopo Clemence riceve una chiamata sul cellulare. Ascolta. Non dice una parola. Chiude la comunicazione.
La voce che usciva dal telefono le ha detto che i due ragazzi sono appena morti. Insieme, un incidente stradale, uno dei tanti.
Il funerale e' una cosa straziante. In chiesa le due bare vengono disposte l'una accanto all'altra, quasi si trattasse del matrimonio che non ci sara'.
Clemence e' cosi' attonita, distrutta, che quasi non le riesce di piangere.
Allo stesso tempo, qualcosa, dentro di lei, ha cominciato a correre.
La sera, tornata dal funerale, verifica a quanto ammontino i suoi risparmi; dato che non e' mai stata persona dedita a far delle gran spese, si tratta di una somma piuttosto consistente.
Il lunedi' successivo, Clemence acquista un biglietto "Round-The-World" (in sostanza, un biglietto aereo, in genere della validita' di un anno o piu', che permette, ad un prezzo forfetario, di fare il giro del mondo; fermandosi, per quanto tempo si voglia, nelle varie localita' che s'intendono visitare).
Ai familiari, i quali (pur comprendendo il difficile momento sul piano emotivo) cercano di convincerla che si tratti di una pessima idea, perche' comporterebbe la probabile perdita di un'importante opportunita' lavorativa, Clemence risponde semplicemente: "Devo farlo. Non si tratta di volerlo o non volerlo. Devo".
Quando la incontro, durante un trekking di qualche giorno nelle foreste del Bokeo (una regione del nord del Laos), Clemence e' in viaggio da tredici mesi. E' stata in America latina, in Polinesia, in Nuova Zelanda ed in Australia ed ora e' in Asia.
Clemence e' sempre sorridente e piena di energie, non e' mai stanca e le difficolta' non la preoccupano.
Clemence dice: "Sai, forse, per vivere una buona vita, sarebbe bene ogni giorno dedicare qualche minuto al pensiero della propria morte. Pensare che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo. Che dici, come filosofia esistenziale suona piuttosto spiccia, giusto? Ma sai che c'e'? E' maledettamente vero, Edo, e' maledettamente vero".
Poi solleva il bicchiere di succo di canna da zucchero che tiene tra le mani, dice "salute!" e se lo gusta come se non avesse mai sentito un sapore cosi' delizioso prima d'ora.
Clemence cammina per le strade del mondo ed a tutti quelli che le domandano "Hey, you, where are you from?" sempre risponde "From the moon".

domenica 8 agosto 2010

VIAGGIATORI A LUNGA SCADENZA. PARTE SECONDA.

MARIE
Sin da quando era molto giovane, Marie ha viaggiato in lungo e in largo. Ha visitato le Americhe, l’Africa, ha trascorso un periodo in Australia. Ma il continente che meglio conosce e che ama profondamente e’ l’Asia.
Dopo tanto viaggiare, Marie e’ tornata in patria (anche lei e’ svizzera), si e’ innamorata, si e’ sposata ed ha avuto due figlie. Per un lungo periodo (e tutti sappiamo quanto l’incedere del tempo sia crudelmente rapido) lo zaino e’ rimasto a riposare dentro uno scatolone, in soffitta.
Ogni tanto – in genere due o tre volte l’anno – Marie ci tornava in Asia, per lavoro. Ma si trattava di meeting condensati e frenetici, una volta a Bangkok, una volta a Kuala Lumpur. Scendeva dall’aereo e subito si ritrovava su un taxi con aria condizionata e dal taxi nella camera dell’hotel a cinque stelle che le era stato assegnato. Se non fosse stato per i timbri sul passaporto, a volte non si sarebbe neppure accorta di aver lasciato l’Europa per qualche giorno.
Dopo alcuni anni e’ accaduto cio’ che, pare – cosi’ dicono le statistiche – avvenga a molte coppie: Marie e suo marito si sono separati.
Nel riordinare le vecchie cose, Marie trova lo scatolone. E lo zaino. E con lo zaino, il desiderio di ricominciare a viaggiare. Ma non viaggera’ da sola; portera’ con se’ le sue figlie (che ora hanno, l’una tredici e l’altra undici anni): il regalo piu’ bello che possa far loro. Ovviamente, dati i rispettivi impegni lavorativi e scolastici, si trattera’ di viaggi brevi, durante le ferie. Quel che conta, comunque, e’ che vedranno qualche pezzo di mondo insieme.
Come vi ho detto, nel corso degli anni Marie ci era ricapitata spesso in Asia.
Ma in un posto non aveva mai voluto far ritorno: a Pechino. Durante i suoi studi in “orientalistica” (credo si dica cosi’), Marie aveva vissuto per oltre un anno a Pechino, frequentando l’Universita’ e studiando il cinese (che ora parla fluentemente).
Come molti altri studenti, Marie abitava all’interno del “campus” universitario. La sua stanza si trovava all’ultimo piano di una piccola palazzina, che si raggiungeva attraversando un bel parco, molto curato. In mezzo al parco c’era un laghetto, intorno al quale gli studenti si incontravano per parlare, leggere, riposare. Insomma, un’isola di – apparente – serenita’ nel cuore della Pechino della repressione e delle retate nelle case dei dimostranti (1992: erano trascorsi appena tre anni dai massacri di Tien An Men).
Completato questo periodo di studi all’estero – per lei molto bello ed
emozionante – era rientrata in Europa. Sin da subito, aveva detto a se’ stessa che a Pechino non ci sarebbe tornata. Mai piu’. Sapeva che non appena, a distanza di anni, avesse rimesso piede a Pechino (una delle metropoli del mondo che nel corso degli anni ha subito le maggiori trasformazioni), la citta’ dei suoi ricordi, della sua giovinezza, si sarebbe dissolta. E questo non lo voleva.
Qualche mese fa, pero’, Marie viene invitata ad un convegno. A Pechino. E questa volta accetta di andarci. Dato che il convegno si terra’ alla fine di giugno, si tratterra’ per qualche giorno nella capitale cinese e poi prendera’ un volo per Bangkok, dove incontrera’, all’aeroporto, le figlie, in arrivo dall’Europa. Da li’ inizieranno insieme un tour di un paio di settimane attraverso Thailandia e Laos (dove ci siamo conosciuti).
Cosi’, dopo diciotto anni, Marie e’ di nuovo a Pechino. Ad un tale che le domanda quale luogo della citta’, palazzo, monumento, desideri visitare terminata la mattinata di interventi dei relatori, Marie risponde d’istinto “L’Universita’. Voglio vedere l’Universita’”.
E ci va, ci torna. Quando il taxista le dice “siamo arrivati”, per un momento
crede si stia sbagliando. Ma no, non sbaglia, sono proprio arrivati, e’ l’Universita’ di Marie. Solo che – come del resto si aspettava – tutto e’ cambiato. All’ingresso principale si accede ora da un’altra via. Hanno realizzato delle nuove costruzioni, moderne, con grandi vetrate. Percorre corridoi sconosciuti. Ogni tanto passa qualche studente o impiegato; nessuno le domanda nulla. E lei continua a camminare, in silenzio. Giunta sul retro del nuovo edificio, si dirige verso l’area del parco. Qui ci sono dei lavori in corso, attraversa un cantiere, perde un poco l’orientamento. Sino a quando, voltato l’angolo, la vede: la palazzina, quella in cui ha vissuto per un anno. Intatta, uguale ad allora, nulla e’ cambiato. Ed il lago, come allora, come quando c’immergeva i piedi, sdraiata sull’erba.
Sta li’, ferma a guardare. Gli occhi le brillano, quasi si mette a piangere.
La macchia azzurra del lago le riporta alla mente un episodio lontano, accadutole mentre era studentessa a Pechino e poi rimasto a riposare sotto pile di ricordi.
La storia che mi ha raccontato Marie su quel che le successe nel parco, accanto al lago, mi e’ piaciuta cosi’ tanto che ho pensato fosse bello la conosceste anche voi. Ora provero’ a raccontarvela.
All’universita’, la separazione tra gli studenti stranieri “ospiti” e quelli cinesi era piuttosto rigida. Benche’ per alcune materie di studio i corsi fossero comuni, molto difficilmente si stabilivano rapporti di frequentazione tra gli stranieri – che costituivano una sorta di enclave – e gli studenti cinesi. Le autorita’ accademiche facevano in modo di preservare questa “separazione”: la Cina non era pronta ad aprirsi al mondo.
Marie – che ha sempre amato distinguersi – faceva eccezione. Preferiva, per quanto possibile, trascorrere il tempo con gli studenti cinesi, piuttosto che con quelli europei o americani.
In particolare, aveva stabilito un rapporto di grande, profonda, amicizia con un ragazzo cinese, prossimo a terminare gli studi, insieme al quale trascorreva dei bei
pomeriggi a conversare degli argomenti piu’ vari. In genere parlavano cinese (era Marie a pretenderlo); solo quando la formulazione della frase si presentava davvero complessa, Marie ricorreva all’inglese.
Un giorno d’autunno, capita che Marie ed il suo amico si trattengano piu’ del consueto a parlare nel parco e cosi’ cominci a far buio.
Percorrendo il sentiero che conduce all’ingresso del campus, Marie e questo giovanotto si mettono, per scherzo, a simulare un combattimento di arti marziali. Insomma, accade che, tra una spinta ed uno sgambetto, i due perdano l’equilibrio e si ritrovino per terra, sull’erba, l’uno accanto all’altra. E che li’, senza che ci avessero pensato, si diano un bacio. Solo un piccolo, breve, bacio. Subito si ritraggono, restano solo li’, sdraiati, a ridere di gusto. La mala sorte vuol pero’ che alla lotta, alla caduta e, soprattutto, al bacio (atto oltremodo contrario alla pubblica decenza!) abbia assistito uno dei guardiani del parco – una sorta di militare – il quale sopraggiunge strillando ed intimando ai due di alzarsi. Dopo di che, rivolgendosi al giovane, sbraita che informera’ del grave fatto accaduto (!) il Direttore, affinche’ si provveda a sanzionare un comportamento cosi’ riprovevole.
Il ragazzo cerca di buttar fuori qualche parola, di spiegare, ma la guardia non gli consente di parlare e continua a ripetere come un disco rotto che informera’ la Direzione, che se la dovra’ vedere con la Direzione, che questa condotta “indecente” verra’ punita.
Tutto il dialogo e’ avvenuto in cinese ma Marie ha ben compreso le minacce del guardiano e sa quali potrebbero essere le conseguenze per il suo amico: addirittura l’espulsione. Cosi’, senza aver fatto nulla, a pochi mesi dal completamento degli studi.
Marie non puo’ permettere una simile, assurda, ingiustizia. Va a mettersi tra il ragazzo ed il guardiano e, per quanto agitata, in un ottimo cinese, ripete a quest’ultimo che non facevano nulla di male e non c’e’ proprio nulla da denunciare, stavano solo scherzando, giocando. Ma quello neppure si degna di guardarla (e’ donna ed e’ straniera: due elementi che nel frangente certo non giocano a favore di Marie), si volta rapido e si allontana a passi lunghi e regolari.
Marie a questo punto e’ in lacrime e domanda all’amico “Ed ora che succede? E’ una cosa grave… e’ grave, vero?” e poi “Dobbiamo fermarlo, dobbiamo parlare con qualcuno, dire che non facevamo nulla, ora!”. Lui, pur apparendo molto scosso, le risponde di non preoccuparsi, che se la cavera’, spieghera’, lei non c’entra, non si preoccupi. Ma a Marie, che – immagino lo abbiate inteso – e’ di indole piuttosto combattiva, questo epilogo non va affatto bene. Cosi’, si mette a correre dietro al guardiano e, raggiuntolo in prossimita’ del laghetto, gli si para davanti, lo trattiene, gli dice che si sta sbagliando di grosso e che e’ lei a voler parlare con il Direttore, vuole parlare con qualcuno, adesso. Il militare – che questa volta davvero non puo’ fingere di non vederla ne’ sentirla – si scansa e, riprendendo a camminare veloce, risponde che lei non ha il diritto di parlare con nessuno, che non c’e’ nessuno che possa ascoltarla; che lui ha visto e questo basta.
Marie si ritrova li’, con le braccia a penzolare lungo i fianchi e gli occhi a fissare la schiena dell’uomo che si allontana.
E allora fa qualcosa di folle. Qualcosa di meravigliosamente folle.
Con tutto il fiato che ha in corpo grida “Aiuto!” e poi si mette a correre, spicca un gran salto e, cosi’ com’e’, vestita, con le scarpe ai piedi, si getta nel lago. In breve, ne segue un gran trambusto: si sono accese luci alle finestre, accorrono studenti, altri guardiani, qualcuno avverte un responsabile della Direzione, il quale, molto allarmato dalla prospettiva di uno studente straniero annegato all’interno del campus, pure sopraggiunge con inconsueta rapidita’. Insomma, Marie, viene soccorsa, tirata fuori dall’acqua, portano delle coperte (essendo autunno il clima e’ piuttosto rigido), le domandano come si senta. E lei, a voce ben alta e scandendo le parole, dice loro: “Adesso, per favore, mi dovete ascoltare”. E racconta l’accaduto.
Il giorno successivo, Marie ed il suo amico vengono ricevuti, separatamente, dal Direttore in persona (come se avessero commesso un crimine efferato). Dopo aver parlato, per prima, Marie attende di sapere dal giovane se siano davvero stati presi dei provvedimenti e di che genere. Il tuffo nel lago, certo non si puo’ negare abbia richiamato l’attenzione sul fatto, ma Marie non e’ per nulla sicura che sia stata una buona “mossa”; insomma, potrebbe anche aver peggiorato la situazione.
L’amico la raggiunge nel pomeriggio e appena la vede le va incontro.
“Ti rendi conto di quello che hai fatto?”.
“Si’, credo di si’. E’ stata una cosa buona o cattiva?”.
“Con questo accidenti di freddo, ti sei gettata nel lago, potevi annegare, potevi…”.
“E’ stata una cosa buona o cattiva? Voglio dire, per te, cos’hanno deciso?...”.
“Sei una folle. Una folle totale. Ma mi hai salvato. Non fanno nulla. Marie, mi hai salvato”.
Diciott’anni dopo, li’, in riva al lago, seduta su una panchina, quelle parole le tornano cosi’ vive, accese, alla mente. Dopo tanto tempo.
Marie mi racconta: “La palazzina, sai, quella in cui avevo vissuto, per un anno. Intatta, uguale ad allora. Ed il lago, come allora, come quando c’immergevo i piedi, sdraiata sull’erba. Nulla e’ cambiato”.
E mentre lo dice gli occhi le brillano, quasi si mette a piangere.